La non classifica delle serie tv del 2025
Sembra ieri che ci stavamo affacciando sul 2025, ed è già tempo di tirare le fila delle migliori e peggiori serie tv dell’anno. Stavolta, però, è stato più complicato del solito, soprattutto scegliere le più belle: dopo un 2024 un po’ blando, sono stati dodici mesi di novità stimolanti, storie originali, successi non previsti, validi tentativi di rilanciare vecchi generi, con lo sbocciare – finalmente – delle serie di Apple TV.
La formula invece è sempre la stessa. Chi legge Tellyst lo sa, qui non si fa la solita classifica, ma tante piccole liste che nel corso dei mesi vengono riempite con le serie tv più belle, quelle più strane, quelle sorprendenti, quelle divertenti, quelle detestabili, quelle non viste, le perdite di tempo, e via dicendo.
L’elenco è assai lungo, si avvisa: in totale sono settantuno (e ne manca anche qualcuna). Ma nel caso non abbiate tempo o voglia di scorrere, basti sapere che la migliore delle migliori è una serie dall’anima classica, arrivata a inizio 2025 e rimasta nel cuore di tutti. Mentre il punto più basso – ahinoi – l’ha segnato un finale piuttosto deprimente. Le trovate in fondo in fondo, insieme a quella che avete votato come la vostra serie preferita di quest’anno.
Le migliori e le peggiori serie tv del 2025
I recuperoni eroici

Shrinking (Apple TV)
Lasciata indietro per accumulo di cose da vedere, finita in condizioni pietose. Mannaggia alle comedy che fanno piangere…
Slow Horses (Apple TV)
Il recuperone dell’estate – ma anche dell’anno. Uno di quelli che inizi piano e poi li finisci in una settimana. La tattica di lasciarsi da parte un po’ grandi titoli, in modo da avere sempre qualcosa per cui entusiasmarsi, funziona eccome.
The Night Manager (Prime Video)
Lacuna grave, lo so. Ma con i recuperoni – altra tattica che funziona sempre – bisogna giocare d’astuzia: conviene farli a ridosso delle nuove stagioni, così non si sente troppo il distacco. Se volete saperlo, comunque, Jonathan Pine è davvero il James Bond televisivo.
Scrubs (Disney+)
Alzi la mano chi era rimasto agli episodi visti qua e là su MTV, oltre vent’anni fa. Più che un recupero, quindi, è un ripassone. Ed è appena iniziato, vale lo stesso?
Le strane avventure di una sera

Wayward (Netflix)
Strano è vedere Mae Martin passare da una delle comedy romantiche più squisite di Netflix a un thriller alquanto inquietante. Strano è sapere che la sua storia terribile viene da fatti accaduti davvero – quelli vissuti da centinaia di ragazzi inghiottiti da un sistema di sostegni sociali che avrebbe dovuto aiutarli. Ancora più strano è il suo evolversi fino a sfiorare un epilogo soprannaturale, dove gli interrogativi abbondano e poco si risolve. L’abilità di Martin nel maneggiare questioni scomode con onestà disarmante e ironia sottile, invece, non è cambiata.
The Girlfriend (Prime Video)
È quel thriller dove Robin Wright e Olivia Cooke se ne fanno di ogni per contendersi l’amore dello stesso uomo – figlio dell’una e fidanzato dell’altra – e nel mentre tentano di portarci dalla loro parte, distorcendo giusto un poco la realtà del racconto. Il triangolo gioca a farsi credere più incestuoso ed erotico di quanto non sia. E paradossalmente, più alza il tiro più diventa prevedibile. Eppure, non si sa come, eccola lì, tra le miniserie candidate a un Golden Globe.
Down Cemetery Road (Apple TV)
Un tranquillo quartiere di Oxford, un’eplosione che coincide con una misteriosa scomparsa, e due outsider un po’ matte che si alleano per salvare il mondo. Seguono morti sospette, sicari travestiti da hippie, inseguimenti concitati, corse in bicicletta, eroismi del tutto casuali, con Emma Thompson e Ruth Wilson sempre bravissime nel ruolo di svitate dallo sguardo lungimirante. Dopo Slow Horses, è la cosa più simile che possiate vedere. D’altronde, la penna – quella di Mick Herron – e le mani di chi l’ha portata in tv sono le stesse. Ci fosse un premio per la serie più snobbata dell’anno, sarebbe suo.
All’s Fair (Disney+)
Per qualcuno è stata uno dei più grandi disastri televisivi di sempre, per altri un enorme spasso. In effetti, a vedere un gruppo di attrici prodigiose stare un passo indietro a Kim Kardashian, a osservarle mentre maneggiano divorzi milionari a colpi di isterie e ricatti sessuali, a sentirle pronunciare battute da soap opera di infimo grado, si oscilla tra lo sconcerto e la meraviglia. Un’allucinazione collettiva così potente che vien da pensare sia voluta. Ma noi italiani abbiamo già avuto The Lady, mica ci stupisce.
Malice (Prime Video)
Sei ore (o forse un po’ meno) al seguito di un ambiguo bambinaio che s’infila nella vita di un milionario borioso, con l’intento ben preciso, ma ragioni a noi sconosciute, di distruggerla. Impossibile non pensare al plagio di Ripley, innegabile che il sadico divertimento nel mostrarci quanto siano miserabili i ricchissimi non s’ispiri a The White Lotus (compresi gli sprazzi di natura irrequieta che preannunciano disastri). Ma non si può dire no a David Duchovny. Neanche quando la storia ha poco senso.

Le perdite di tempo
The Stolen Girl (Disney+)
I thriller inconsistenti forniscono spesso almeno un valido motivo per cui farsi seguire. Questo no. Un paio di episodi, e svanisce non solo la figlia della protagonista, ma anche la curiosità di sapere dove sia finita.
Maschi veri (Netflix)
La solita commedia italiana, sulla solita guerra tra sessi, con il solito spreco di bravi interpreti, e la solita tendenza ad appiattire ulteriormente un format già appiattito dai cliché, nel tentativo di strizzare l’occhio agli pseudo-femminismi da social. Ma la scelta di contrapporre agli uomini in crisi un gruppo di donne in egual misura nevrotiche, che tutto spiegano, dominano, manipolano, quella sì che è interessante.
Murderbot (Apple TV)
Era quella dove Alexander Skarsgård è un robot dotato di coscienza propria e costretto a fare da guardia del corpo agli umani benché li disprezzi tutti. La sua unica ragione di vita, infatti, è guardare serie tv. Dovrebbe far ridere restando seria, ma è più un noioso concentrato di missioni galattiche alle quali nemmeno i suoi personaggi sembrano credere troppo. A tanti è piaciuta, però.

Quelle che non sembrava, e invece…
Dieci Capodanni (RaiPlay)
Dieci minuti dopo averla iniziata ci si chiede, maledicendosi, “Ma cosa sto guardando?!”. Bisogna solo darle fiducia. Capodanno dopo Capodanno prende forma la nascita, l’evolversi, l’incrinarsi, il ricucirsi del legame tra due trentenni smarriti. L’idea ricorda One Day, ma l’esecuzione è più simile a Scene da un matrimonio (quella di Bergman): non si sforza di essere bella, gradevole, ritmata, edulcorata. È europea, e cerca raffinatezza nel realismo nudo – letteralmente – e crudo. È come spiare due vite, senza filtri e con pochi tagli.
Overcompensating (Prime Video)
Questa è la serie su cui non avremmo scommesso un centesimo. Si pensava fosse una di quelle commedie attuali che si credono simpaticissime, ma non fanno ridere nessuno. E invece, con le sue disavventure di un universitario popolarissimo tra i machi, anche se gay non dichiarato, sorprende a più riprese. Stereotipi e situazioni – feste, sbornie, smutandamenti imbarazzanti, riti di iniziazione – riportano in vita quel gran caos di American Pie. Ma il creatore Benito Skinner ci gioca con una certa consistenza, attingendo con sguardo tenero al proprio passato.
A Thousand Blows (Disney+)
Qui c’era il grosso rischio di restare delusi dall’ennesimo tentativo di replicare Peaky Blinders. E invece Steven Knight ha pescato di nuovo dalle leggende criminali narrate in famiglia, per far rivivere un’altra gang ottocentesca davvero esistita, tutta al femminile. Ci sono le strade sporche di fango, le riunioni strategiche nei pub legnosi, la faccia insolente di Erin Doherty e la fragilità repressa di Stephen Graham. Ma soprattutto, c’è il fascino da bambino con cui Knight racconta i suoi personaggi e li fa muovere al rallentatore. Esattamente ciò che rendeva magnetica Peaky Blinders (ok, anche Cillian Murphy faceva la sua parte…).
Il caso Air Cocaine (Netflix)
Difficile che le docuserie finiscano tra le migliori uscite dell’anno, ma questa storia assurda di quattro piloti d’aereo scambiati per pericolosi trafficanti di droga potrebbe essere un degno spin-off di Narcos.

Quelle lasciate a metà. Ok, solo qualcuna di quelle lasciate a metà
Hyper Knife (Disney+)
L’intenzione iniziale c’era tutta, ma Adolescence ha sviato l’attenzione. Qualcuno l’ha definita una Dexter sudcoreana, però. Quindi urge recuperare…
Black Mirror 7 (Netflix)
Non che non ne valesse la pena, anzi. È che, quando le novità abbondano, sono spesso le serie navigate a rimetterci.
Carême (Apple TV)
Geniale, sfidante, irrequieto, e dotato del carisma necessario a tenere in piedi anche le parti di trama più blande. La storia del primo chef celebrità era certamente più interessante di quella di una compagnia di balletto sull’orlo del fallimento (si veda alla voce Étoile, tra le delusioni dell’anno). Mannaggia al richiamo di Amy Sherman-Palladino.
The Four Seasons (Netflix)
Iniziata in ritardo, interrotta presto. Gradevole, però!
The Sandman (Netflix)
Qui si è ancora fermi all’episodio numero tre, ma da qualche parte urge trovare il tempo di proseguire.
Alien: Pianeta Terra (Disney+)
Riprenderla è d’obbligo, anche perché molti l’hanno messa nella liste delle cose migliori viste quest’anno.
IT: Welcome to Derry (Sky e Now)
Come sopra, con la scusante che gli episodi sono abbastanza impegnativi e la parte da urlo tarda ad arrivare. (E dato che l’alternativa erano Nobody Wants This, Pluribus e Stranger Things, potrete ben comprendere).

Le migliori, davvero
The Last of Us 2 (Sky e Now)
Le serie belle non vedi l’ora che ritornino, ma con The Last of Us si aveva anche paura di reimmergersi nella tachicardia densa. E infatti, non ha edulcorato niente. È vero, tra gli estimatori del videogioco si dice che non si è riconfermata all’altezza, che si è mossa lenta, che ha perso consistenza. Ma trovatela, di questi tempi, un’altra serie che vi faccia sudare così tanto. Un simile viaggio a ostacoli dove ogni scelta in apparenza giusta nasconde conseguenze brutali. Un mondo così tanto articolato, fatto di tappe, fazioni, angoli di speranza, posti per niente sicuri, e stralci di passato in cui rifiatare. Una storia di resilienza così dolorosa. È bastato il secondo episodio – l’orda di mostri e quella morte piazzata lì senza paura – a fare l’intera stagione. E sancire che sì, è lei l’erede del Trono di Spade.
Scissione 2 (Apple TV)
Il motivo per cui si è guadagnata questo spazio è semplice: la capacità di farti tornare di settimana in settimana, di convincerti a investire in un mistero incomprensibile, su cui forse non si avranno mai risposte. Ma fa niente, va bene così. Il punto è godersi i suoi strambi impiegati (o anche solo John Turturro), percorrerne i corridoi ipnotici, immergersi nelle mille sfumature di bianco, farsi stordire dal silenzio. Difficile trovare un’altra serie così caotica e al contempo tanto posata. Probabilmente ci sta solo facendo girare a vuoto; magari – Lost avverte – i pezzi del puzzle non sono tagliati per incastrarsi alla perfezione; o invece un disegno da seguire ce l’ha, ma vuole prima testare la nostra pazienza. La riuscita sta nel farci stare lì, come cavie volontarie, a navigare nella frustrazione in attesa di una ricompensa.
L’arte della gioia (Sky e Now)
Proprio come il bistrattato romanzo di Goliarda Sapienza, il suo adattamento ha fatto ingiustamente poco rumore. E allora le rendiamo grazie ad alta voce per non averci servito un polpettone rosa o infarcito di facile retorica pseudo-femminista. Per essersi presa delle libertà narrative, ma aver mantenuto l’indole ruvida dell’originale. Per aver reso l’istintiva ricerca della gioia, a dispetto della brutalità della vita. E per aver lasciato più spazio agli sguardi che alle parole, aver assemblato un cast incredibilmente fedele allo scritto, cercato in ogni fotogramma la bellezza della Sicilia decadente di inizio Novecento. L’unico peccato è la durata: c’era abbondante materiale per farne diverse, lunghe stagioni. Una sensualità silenziosa, che fa le scarpe a certe pacchianate in costume.
Dept. Q (Netflix)
Finalmente libero da cravatte e cravattini, dalle guance ben rasate, dalle leziosità dei drammi in costume, Matthew Goode si è preso il ruolo del detective trasandato, scorbutico, dall’impreco facile. E sembra trovarci parecchio gusto. Ma è tutta una finta, non si può non amarlo. Come non si può non affezionarsi allo strano gruppo di disadattati in cerca di riscatto che si è scelto come compagni di vecchie indagini nello scantinato della polizia di Edimburgo dove è stato spedito. Pare Slow Horses – ma è nata prima; attrae con la cupezza di un noir nordico; brucia lenta, ma con la sicurezza di chi sa come ripagare la pazienza iniziale. Tanto, a farti tornare sono i personaggi, mica il mistero centrale.
Matlock (Paramount+)
Sembrava che i legal drama confortevoli fossero ormai spacciati. Poi è arrivata Kathy Bates, con la sua versione al femminile di un vecchio classico televisivo. Una signora in giallo dall’aria innocua, in missione sotto corpertura per cercare risposte su una tragedia personale. Un caso per puntata e battaglie legali soft che si risolvono grazie all’acume della protagonista. È calda, familiare, di grande spirito. Non richiede altro che mettersi comodi sul divano.
The Studio (Apple TV)
Difficile capire da dove partire con l’elenco dei meriti. Forse, dalla scelta intelligente di non imbastire l’ennesima replica di Call My Agent. O forse, dalla linea di separazione sottilissima tra le guest star e i personaggi fittizi. Oppure dal visibile godimento di Seth Rogen nel farsi prendere a cazzotti – letterali e figurati – dalle versioni caricaturizzate di illustri colleghi. O ancora, dall’inettitudine del suo Matt Remick, dall’assemblaggio di lunghe sequenze sempre più affannose, dall’aver anticipato la fine amara dei vecchi studios in mano ai grandi servizi servizi streaming, da Ron Howard irascibile, da Martin Scorsese che piange, da Bryan Cranston che burattineggia in mutande, da quel capolavoro di episodio in trasferta con beffa finale. O semplicemente, dalla finta aria di chi vuole divertirsi a guastare il nostro immaginario del cinema hollywoodiano, quando sotto sotto gli dichiara amore. Nessuna commedia, quest’anno, è riuscita a competere.
Long Story Short (Netflix)
La nuova serie tv dai creatori di BoJack Horseman è stata tra le migliori scoperte dell’estate 2025. Un avanti e indietro continuo nel legame tra tre fratelli, per intessere i ricordi di infanzia, le tradizioni, i conflitti, i non detti (quelli che tanto coglie la pancia), i passaggi, le nascite e i lutti che hanno dato forma alle loro esistenze. È la storia di una famiglia, ma parla di ogni famiglia. Detta così, pare un dramma. Ma ci si diverte, anche perché ai personaggi si vuole subito un gran bene. E le si vuole bene anche per non aver ceduto a quel vittimismo facile che ormai pervade i social, per cui tutto è trauma e la colpa di ogni nostro nodo è sempre degli altri. Proprio come BoJack Horseman, vale quanto dieci sedute di terapia.
Slow Horses 5 (Apple TV)
Sì, ormai l’avete capito che è stata una delle gioie del 2025. Ma bisogna pur ribadire che anche la quinta stagione è superba. Dove le trovate, delle spie che si difendono con spade nerd e fanno fuori politici estremisti per sbaglio? Come si fa a non amare Gary Oldman, che al loro sudicio capo – svogliato, arguto, protettivo a modo suo – aggiunge ogni volta una marea di dimensioni? In genere, la grandezza di una serie si misura dal vuoto che lascia. E qui sei episodi non sono mai abbastanza.
Pluribus (Apple TV)
In un mondo di serie accomodanti ci si sentiva persi. Tutte simili, tutte semplici, tutte pensate per non procurarci troppe frustrazioni. Vince Gilligan s’è inventato un’apocalisse al contrario che riporta finalmente indietro di vent’anni, a quando le storie televisive erano ricche di stimoli, facce ambigue, caratteri autenticamente spigolosi, ironia squisitamente sottile, voglia di sperimentare, incognite da alimentare per decine di episodi e svelare piano piano. Che sia lenta non c’è dubbio. E forse – come Scissione – sta ancora decidendo quale direzione imboccare. Ma davvero è noiosa? Oppure è che alla lentezza, a tenere in mano la complessità, a dover cercare risposte non siamo più abituati? L’algoritmo è l’apocalisse e Carol siamo noi, insomma. Se non è la migliore tra le migliori serie del 2025, poco ci manca.

Quelle dolorose, ma ne è valsa la pena
M – Il figlio del secolo (Sky e Now)
In Italia, una serie così non l’avevamo mai vista. Perché in genere il fascismo chiama la fiction didascalica, il tono dolente, le solite facce da servizio pubblico, e quel moralismo pedagogico che uccide la voglia ancora prima di iniziare. Quella “M” sta invece per moderna, per musica, per matta, per Marinelli (che a Mussolini non somiglierebbe neanche a luci spente). Tutto funziona a meraviglia, la scrittura gira a mille, pulita e limata con una precisione maniacale. Per questo colpisce duro.
Adolescence (Netflix)
Per lo strazio crescente nel stare a guardare un padre come tanti che tenta di spiegarsi come abbia potuto crescere un figlio omicida. Per i pezzi di dignità che tenta silenziosamente di tenere incollati insieme. Ma soprattutto, per quel pianto finale inconsolabile di tre minuti, in cui si consumano altrettanti pacchetti di fazzoletti. Checché ne dicano gli psicologi appassionati di serie tv (o forse solo in cerca di consenso facile) questa serie non parla di adolescenza, né di violenza di genere, né andrebbe fatta vedere nelle scuole. O magari sì, ma alle riunioni per genitori.
Il cono d’ombra (Sky e Now)
Siamo così assuefatti ai true crime morbosi, sensazionalistici, tirati il più a lungo possibile, che quando ne spunta uno concreto, rispettoso, con un senso della misura, pare quasi una creatura strana. Se non l’avete vista, la storia di Denis Bergamini raccontata da Pablo Trincia è da recuperare. Anche perché apre a un tema di cui si parlerà tra qualche tempo.
Il Mostro (Netflix)
Prendete quello che avete appena letto, duplicatelo e raddoppiatene il valore. Il caso del mostro di Firenze, infatti, si prestava a un certo grado di voyeurismo, e il fatto che Stefano Sollima lo abbia scansato è ancora più apprezzabile. Il suo è uno sguardo asciutto, misurato, e tanto angosciante. Si può raccontare l’orrore senza essere morbosi. Si può cercare di capire, senza la pretesa di fornire risposte.
Dying for Sex (Disney+)
Che dire… raccontare la malattia così non riesce bene a tutti. Far coesistere, cioè, sesso e morte, energia e dolore, amicizia incondizionata e rabbia, risate e fiumi di lacrime, riscoperta di sé e perdita del proprio corpo, gioia di vivere e paura di non esistere più. Ascoltare il podcast da cui è tratta ne amplifica l’effetto.

Le meteore
Ironheart (Disney+)
E anche quest’anno Marvel si riprende l’anno prossimo…
Pulse (Netflix)
Doveva essere la nuova Grey’s Anatomy, ma è durata giusto venti stagioni in meno.
The Residence
Si dice che farla uscire nello stesso periodo di Adolescence non sia stata una buona idea.
Suits LA
Nemmeno fare revival sulla scia dell’entusiasmo per le repliche è sempre una buona idea.
Love Bugs 4 (TV8)
Qualcuno si è accorto che è uscita?

Quelle buone, ma non perfette. Che poi cos’è la perfezione? Nessuno è perfetto!
Squid Game 3 (Netflix)
Il meccanismo è sempre lo stesso e alla lunga si fa ripetitivo. Ma i suoi dilemmi sulla disperazione umana scavano dentro e a tratti strappano pure una lacrima. Ok, più di una.
House of Guinness (Netflix)
Pensate quello che volete: che sia un po’ troppo soap opera, che ogni tanto perda il filo, che gli sprazzi di crime spietato non vanno oltre il primo episodio. Ma per un attimo è sembrato di rivedere Peaky Blinders (sì, è un’ossessione). La sua ironia posata, le beghe di famiglia, il magnetismo oscuro di certi personaggi, ce li si beve di gusto. Netflix, se sei in ascolto, uno spin-off sul tuttofare interpretato da quella faccia da schiaffi di James Norton, please.
The White Lotus 3 (Sky e Now)
Cambiano i paesaggi, ma non la formula e nemmeno il sadismo di Mike White: come frulla lui le nevrosi dei ricchi, solo pochi altri. Forse il tema di stagione – spiritualità e morte – non ha la stessa attrattiva dei precedenti, ma è difficile competere con soldi e sesso. L’unico vero delitto è aver ucciso quella magnifica sigla.
Your Friends & Neighbors (Apple TV)
Vi si potrebbe dire che la parte intrigante è la metamorfosi di tale Andrew Cooper da pezzo grosso della finanza a ladro disgraziato. Oppure i segreti che ruba nelle megaville della sua cerchia snob di vicini di casa. O il morto in cui incappa presto, come se la sua vita non si stesse già disfacendo a velocità supersonica. Ma la nuda verità è che la si guarda per Jon Hamm, che dopo dieci anni si è ripreso un ruolo da protagonista. Ed è l’incrocio perfetto tra il fascino ambiguo di Don Draper e i camei stravaganti venuti dopo.
Too Much (Netflix)
La nuova serie di Lena Dunham è una commedia romantica atipica: poco sentimentale (due piantini ce li si fa comunque), ma certamente autentica. Con le emozioni, infatti, nessuno ci capisce niente. Uno strano mix tra il disagio di Girls e i classici film d’amore british, che si evolve in modo un po’ frettoloso – sia maledetta l’avversione dei servizi streaming per i finali in sospeso – ma lancia un messaggio non da poco sulla smania da red flag. Altra richiesta per Netflix: uno spin-off sulla sorella logorroica interpretata da Dunham.
Blanca 3 (Rai 1)
Questo è davvero il posto giusto dove collocarla? Forse no. L’idea è sempre buona? Decisamente sì. Gli interpreti principali sono validi? Miracolosamente anche. Potrebbe fare di più? Eccome! Ma hai voglia a scrollarsi di dosso il vizio tutto italiano ad accontentarsi…
Stranger Things 5 (Netflix)
La si aspettava al varco, e per ora è andata così così. Qualche problemuccio in effetti c’è: la troppa attesa, i personaggi ormai visibilmente adulti, incoerenze narrative qua e là, la digitalizzazione massiccia, oltre alla fastidiosa tendenza a dilungarsi in spiegazioni verbose. Non riconoscerle il lavoro sontuoso che ha fatto, tuttavia, sarebbe parecchio disonesto. Il suo vero potere, quello di convicere milioni di persone a lasciare da parte ogni distrazione per vivere insieme un nostalgico omaggio al passato, permane. I fratelli Duffer hanno trasmesso il loro affetto per gli anni Ottanta, per la storia, per le sorti dei loro protagonisti. Hanno generato un horror che è un posto sicuro. La questione piuttosto è che, quando le cose finiscono, disprezzarle come se non ci piacessero più aiuta a lasciarle andare.

Divertenti!
The Last Frontier (Apple TV)
Un incidente aereo, i peggiori criminali in fuga, un città isolata sotto attacco. Sulla carta, di divertente non c’è proprio nulla. L’azione però abbonda ed esagera così tanto fino all’assurdo, che lasciarla non è un’opzione.
Nobody Wants This 2 (Netflix)
Un’altra stagione serviva? No. Ha perso un po’ di magia? Abbastanza. Vale la pena di vederla? Finché mantiene questa leggerezza e questi personaggi secondari, sempre.
Platonic 2 (Apple TV)
La nuova stagione è deliziosa quanto la prima: sempre spassosa e scorre che è un piacere. Il comico è Seth Rogen, ma si ride per Rose Byrne. Una di quelle commedie balsamiche che ad Apple TV riescono benissimo. Peccato non se ne parli di più.
Deli Boys (Disney+)
Un tipico self-made man immigrato muore in modo alquando banale, i figli viziatissimi ereditano il suo impero di minimarket, che è solo la copertura di un enorme smercio di droga. La cronaca delle loro disavventure ha una comicità semplice, assurda, popolata di caricature, ma vibrante e acuta. Il pubblico deve ancora scoprirla, la critica l’ha elogiata.

Quelle che sono piaciute agli altri, ma non a Tellyst
Dope Thief (Apple TV)
Brian Tyree Henry è bravo. Wagner Moura altrettanto. Ma se si guarda oltre, resta solo uno di quei thriller grigi e dimenticabili che ogni tanto ad Apple TV non riescono col buco.
The Beast in Me (Netflix)
La sua fortuna è avere due facce plastiche (e stranamente non paralizzate dal botox) che tengono in piedi un tentativo discreto di paranoia hitchcockiana. Matthew Rhys che sbuca dalle finestre, però, mette davvero i brividi.
All Her Fault (Sky e Now)
Diciamoci la verità: tolto quello spesso strato di morale semplice sulla fatica delle madri e l’inettitudine dei mariti, sarebbe ugualmente considerato un buon thriller?
Quelle che sono piaciute a Tellyst, ma non agli altri
The Last Frontier (Apple TV)
Al contrario di quanto scritto poco fa, Apple TV non deve averla trovata divertente: pronti via, cancellata. Nemmeno il finale lasciato furbescamente aperto l’ha persuasa.

I vizi
Envidiosa 3 (Netflix)
Sarà il ritorno della commedia romantica vecchio stile. Saranno i colori sapientemente accostati. Sarà che l’egocentrica Vicky fa una certa tenerezza. Guardarla mette sempre di buonumore. Non lasciatevi ingannare tuttavia dalla leggerezza: i fili psicologici dei personaggi sono mossi con incredibile realismo.
We Were Liars – L’estate dei segreti perduti (Prime Video)
Avete presente quando l’intrigo è deboluccio, il dramma acerbo, la recitazione così così, eppure non riuscite a staccarvi dallo schermo? Ecco, è questo il caso. Una Succession teen e un po’ soap con svolta finale che lascia perplessi. Ma non vi si dà tutti i torti, se è stata la vostra serie dell’estate.
The Buccaneers 2 (Apple TV)
Che importa se il romanzo di Edith Wharton è ormai lontanissimo, se ogni tanto inciampa nel femminismo facile, se inanella svolte così rapide e voluttuose da risultare improbabili persino per il suo mondo volutamente anacronistico. C’è una vitalità, in questa serie, che è contagiosa. E preme così tanto sull’acceleratore, che a tratti è anche meglio di Bridgerton.
Hostage (Netflix)
Viste le reminescenze di Bodyguard ci si aspettava di più, ma è un buon diversivo dalla giusta durata. Uno di quei thriller politici rassicuranti dove fino all’ultimo non è mai finita, che guarda all’attualità con donne leader dall’anima pulita (un po’ troppo, forse).

Quelle che sarebbe stato meglio recuperare per farsene un’opinione
Andor (Disney+)
Pare incredibile, ma tre anni di attesa non sono bastati a recuperarla.
The Bear 4 (Disney+)
Al contrario di quel che accade nella sua cucina, qui s’è perso tempo…
L’estate nei tuoi occhi 3 (Prime Video)
Non dite niente, il successo parla chiaro: va vista. (Poi però, due domandine su questa passione per i triangoli amorosi, ce le facciamo).
Only Murders in the Building 5 (Disney+)
Ormai ce la si tiene buona per quei periodi in cui si ha voglia di qualcosa di confortevole.
The Diplomat 3 (Netflix)
Visti gli apprezzamenti entusiastici, converrà recuperare in fretta.

Le delusioni
Stick (Apple TV)
Forse la nomea di “Ted Lasso del golf” le ha fatto lo sgambetto, anche se un po’ se l’è cercata lei. Il problema? Sotto il cinismo, gli attriti, le stranezze dei personaggi si fatica a percepire lo strato di rabbia e malinconia che si muove con loro. In breve, manca la mano di Bill Lawrence.
Étoile (Prime Video)
Non è bastato irrorrarla con le caricature nevrotiche e amabili che hanno fatto il successo di Una mamma per amica e Mrs. Maisel. E neppure danzare al ritmo vivacissimo della scrittura dei coniugi Palladino. Stavolta qualcosa non ha funzionato. Colpa della premessa semplice, ma dalla logica traballante. O magari della difficoltà a trovare un personaggio su cui investire davvero. Oppure è la semplice maledizione che affligge le serie sulla danza classica. Resta il fatto che la durata percepita degli episodi, già lunghissimi, sembra infinita. E in qualsiasi punto ci si trovi, manca sempre troppo alla fine.
Victoria Beckham (Netflix)
Non è stata una delusione così grande. Piuttosto, un rimpianto di quel che avrebbe potuto essere. Victoria Beckham cura tutto alla perfezione, anche il racconto della sua vita. Ed è un peccato.

Quelle detestabili, ma proprio tanto
Mercoledì (Netflix)
In molti non la pensano così, ma guardare Mercoledì è una gran fatica. Bella è bella: non c’è una battuta, un colore, una mossa fuori posto. E interpreti carismatici spuntano da ogni angolo dello schermo. Tutto sembra apparecchiato per ammaliare gli occhi, ma mancano le emozioni. Rispetto alla prima stagione, gli eventi della seconda sembrano ancor più un semplice pretesto per tenerci lì ad acchiappare i camei, anziché cercare davvero un senso tra l’affollamento di trame.
The Savant (Apple TV)
Se non l’avete vista, è perché non è mai uscita. L’esordio era previsto proprio nei giorni dell’omicidio di Charlie Kirk e Apple TV ha preferito sospenderla. Solo che poi non se n’è saputo più niente: puff, svanita! Qualcuno l’ha definita una mossa poco coraggiosa. Di certo, non è stata furbissima. Avere Jessica Chastain che ti racconta la storia – vera, peraltro – di un’anonima investigatrice che s’infiltra nella manosfera per adescare pericolosi estremisti politici, in settimane nelle quali non si parlava d’altro, sarebbe stata una buona coincidenza per il successo. Probabilmente anche l’unica. Non è chiaro se ormai si possa dirlo, infatti, ma non vi siete persi niente. La recensione comunque è lì pronta, nel caso il veto si sbloccasse.
Monster: La storia di Ed Gein (Netflix)
Confessione: andare oltre il trailer è stato impossibile. Come si è scritto, era davvero necessaria una serie così disgustosa? Fin dove è lecito inventare dettagli beceri con la scusa di capire il mostro?

Quelle che si avrebbe visto (o finito di vedere) se non si fosse perso tempo con quelle di prima
Paradise, The Night Agent 2, Storia della mia famiglia, Zero Day, Running Point, Toxic Town, Mare fuori 5, L’eternauta, Sirens, MobLand, Il Baracchino, Dexter: Resurrection, Occhi di gatto, Black Rabbit, Chad Powers, Death by Lightning, Mr. Scorsese, Maxton Hall, Mrs. Playmen, Amadeus, Human Specimens, Minimarket…
[Riprendere fiato]Ah, e anche Il Gattopardo. Lapsus del tutto non casuale…

La vostra migliore serie del 2025
Adolescence (Netflix)
Non ce n’è, Adolescence è sempre stata la vostra preferita (benché l’abbia spuntata su Stranger Things solo per una manciata di voti). Perché se è vero che con il tema doloroso si vince facile, lei lo ha proposto con mestiere. Non solo. Si è anche presa la responsabilità – spinosissima, di questi tempi – di cambiare l’approccio al discorso sulla mascolinità rabbiosa, portarci lì dentro, e provare a capire senza aggredirla, distribuire colpe, fornire facili vie di fuga. Qualcuno l’ha compresa, altri si sono spazientiti, ma quel che conta è che ha aperto un dibattito e forse è il segno che il vento sta cambiando (come si fa risolvere le cose, se ci si rifiuta di osservarle?). Solo che non ci siamo più abituati, a orientarci nei dilemmi scomodi. E nemmeno alle serie che ci mettono in mano milioni di domande, rifiutandosi di fornire risposte.

La migliore di tutte
The Pitt (Sky e Now)
Questo posto avrebbe potuto essere di Scissione, Pluribus, The Studio, Adolescence: il 2025 ha avuto diverse serie migliori. The Pitt però se lo merita assai più delle altre. Perché ha rianimato un genere – quello del medical drama – che sembrava fermo da vent’anni. Perché per farlo ha attinto dai grandi classici, dall’anima di ER, dai suoi episodi più sperimentali, dalla formula tachicardica di 24. E perché la scioltezza con cui introduce, maneggia, intreccia, sospende e poi riprende la moltitudine di casi medici che si riversano nel suo pronto soccorso ha qualcosa di prodigioso. Il tutto, sviando di continuo dal dramma, dal dolore, dalle emozioni, proprio come fanno i suoi medici per sopravvivere. Di loro, del dottor Robby (che ha gli occhi buoni di Noah Wyle), non sappiamo quasi niente, eppure gli si affiderebbe la propria vita. Di volti così rassicuranti avevamo bisogno, in quest’epoca dall’egoismo spaventoso. Non è un caso si stia aggiudicando i premi più prestigiosi. E non lo è nemmeno che sia uscita a gennaio, eppure ce la si porti nel cuore come fosse arrivata ieri.

La peggiore in assoluto
And Just Like That… 3 (Sky e Now)
C’è una cosa che non bisogna mai fare: tornare a vedere gli ultimi episodi di una serie, dopo averla abbandonata da tempo. And Just Like That è stata l’eccezione e una delusione profondissima. Il doppio episodio aggiunto in coda alla terza stagione, dopo la sua cancellazione, è un finale triste, amarissimo – e non perché commovente. Bensì per la desolazione più totale con cui si è lasciata andare. Il motivo per cui Sex and the City brillava era la tensione che infondeva in ogni linea narrativa a suon di nevrosi e situazioni bizzarre, dando propulsione alla vivacità degli episodi. Niente di tutto questo è rimasto. Solo il senso di svogliatezza con cui interpreti e personaggi sembrano aver trascinato sé stessi (e i loro costumi stravaganti) verso una fine opaca.
Sfondo di copertina: Freepik





