“The Studio”: Hollywood ha trovato la sua “Call My Agent”
Piccola postilla prima di iniziare: questa recensione si basa su sette dei dieci episodi di “The Studio”.
Se vi sentite sopraffatti dalla vita, provate a farvi una giornata in quella di Matt Remick, neo capo dello storico studio hollywoodiano per cui lavora da vent’anni e che da sempre sognava di dirigere, se solo gli riuscisse bene almeno la metà di come se l’era immaginato.
Matt Remick è Seth Rogen, canadese, comico, creatore e protagonista di The Studio, la serie di Apple TV+ con la concentrazione decisamente più alta – stima del tutto non verificata – di grandi nomi hollywoodiani. (Qualcuno l’ha interpretata come una dimostrazione del gran giro di conoscenze di cui Rogen ha saputo contornarsi).
Si pensava che la tv americana avesse perso il tocco magico con i remake, la smania di pescare produzioni straniere e rifarle da zero, con la supponenza di poter crearne una versione migliore. E in effetti, almeno in questo caso, ha lasciato perdere il rischioso tentativo di replicare Call My Agent, per seguire un’idea simile ma tutta sua. Solo che qui la linea di separazione tra le guest star e i personaggi fittizi è ben meno marcata: ogni volta che un volto conosciuto compare in scena, ci vuole un attimo per capire se sia lì nel ruolo di un sé stesso caricaturizzato o nelle vesti di qualche stravagante personaggio inventato.
Per intenderci, si parte con Bryan Cranston che fa il capo del capo. Lui è il proprietario della Continental Studios e ha scelto Matt Remick soprattutto per un motivo: far guadagnare all’azienda più soldi possibili, fregandosene di quelle «pretenziose stronzate cinematografiche» che pensano all’arte. L’obiettivo è fare film che «covincano la gente a pagare per vederli». Tipo una versione live-action di Kool-Aid – mascotte dell’omonimo brand di preparati per bevande alla frutta – che faccia concorrenza a Barbie e Super Mario.

Solo che Matt ha un problema. Anzi, due. Ama il cinema, molto. E vuole piacere a tutti. Così, mentre si aggira per riunioni sciorinando la sua conoscenza in fatto di capolavori, mentre fa visita ai set con la meraviglia di un bambino in gita, la reazione di chi lo circonda è alzare gli occhi al cielo, poi camuffare il disprezzo e infine circuirlo, sapendo che ogni richiesta sarà accolta con smisurato entusiasmo. Tutti vogliono qualcosa da lui. Ma benché abbia sufficiente potere per tenerli in pugno, Matt Remick è un miserabile che tenta di riparare alle conseguenze dei no che non riesce a dire.
Ogni episodio, specialmente i primi, sono la cronaca in tempo quasi reale delle sue imbarazzanti disavventure lavorative. C’è quello dove Ron Howard incute timore con la sua nomea di regista fintamente gentile. C’è quello dove Martin Scorsese propone idee truculente dal budget spaziale (nessuno sa fare Scorsese come Scorsese). E c’è quello dove Sarah Polley lo confina in un angolo, per limitare le incursioni e poter girare un piano sequenza prima di perdere la luce giusta. Spoiler: le incursioni hanno la meglio.
Nella visione di The Studio, l’ideale romantico di Hollywood s’incrina, e la percezione è che le situazioni non esagerino poi tanto rispetto a quanto Rogen abbia visto o sentito davvero. È una macchina in balia della disperata ricerca di soldi e attenzioni, oltre che delle eccentricità di chi la popola. E non ci sono solo le star, che qui interpretano la versione più sgradevole di sé, o quella opposta ai tratti per cui sono conosciute. Ike Barinholtz è il braccio destro di Matt, cocainomane, scalpitante, arrabbiato. Catherine O’Hara è colei che l’ha preceduto, tagliata fuori per aver rigettato il progetto Kool-Aid, dai nervi consumati dopo trent’anni nel settore, che scuce consigli da mentore solo in cambio di qualcosa. Kathryn Hahn – magnifica – è la stratega del marketing, che circola spavalda con enormi borracce e conclude ogni frase urlando. «Facciamo film, non opere cinematografiche» ripete a Matt per scrollarlo dall’indecisione.

Naturalmente, non è certo la prima volta che una serie tv decide di far satira sulle stranezze del mondo hollywoodiano. Ma se nel contenuto The Studio appare critica, nella forma sembra voler omaggiare l’idea di cinema in quanto arte. Le immagini pallide e granulose, i colori caldi e terrosi, gli abiti e gli arredi rétro riportano alla Hollywood di cinquanta, sessant’anni fa. Sono il filtro attraverso cui Matt alimenta il suo ideale sognante, il simbolo della sua nostalgia per il passato. E poi i piani sequenza: se avete appena riscoperto la prodezza con Adolescence, in The Studio ne troverete a valanghe. Tutti gli episodi sono un assemblaggio di poche, lunghissime scene che seguono Matt nei suoi affanni quotidiani, e ondeggianno al ritmo di musiche incalzanti.
Un po’ come accade in The Bear, ma con meno stacchi per rifiatare, si viene inghiottiti in un vortice di ansie, equivoci, imprevisti, con una precarietà – emotiva e visiva – da far venire il mal di testa. E come The Bear fa con la ristorazione, The Studio si diverte a guastare il nostro immaginario del cinema hollywoodiano. Meglio non mettere piede in una cucina, né sapere come davvero come si fanno i film, se volete che il romanticismo venga preservato.
“The Studio” è su Apple TV+ ed è composta da 10 episodi lunghi 25-45 minuti. I primi due sono disponibili da subito.
Guarda il trailerFoto di copertina: Apple TV+