“M – Il figlio del secolo” è matta da impazzire
Piccola postilla prima di iniziare: questa recensione si basa su sei degli otto episodi di “M – Il figlio del secolo”.
Tra le nuove, e sempre poche, certezze della vita c’è che, qui in Italia, una serie come M – Il figlio del secolo non l’avevamo mai vista. Perché in genere il fascismo (o quale che sia il tema storico di turno) chiama la fiction didascalica, il tono dolente, le solite facce da servizio pubblico, e quel moralismo pedagogico che uccide la voglia ancora prima di iniziare, spingendo nelle braccia di Netflix, a farsi acchiappare dalla prima boiata che capita sott’occhio. E invece.
Invece “M” sta per moderna. Ma non quel moderno che, in questo paese vetusto, si attribuisce con facili entusiasmi a toni e stili che altrove circolano già da un decennio. M – Il figlio del secolo è di un moderno che irride, scompone, storpia, velocizza, scalpita, e impasta tra loro elementi in dissonanza assoluta. È moderna anche se ad aprirla sono spezzoni d’archivio in bianco e nero, e continua a incollarli qua e là lungo tutto il racconto. È moderna anche se, di protagonisti che parlano dritti in camera chiamando in causa noi pubblico, ne è ormai pieno il teleschermo. Senza considerare che sbeffeggiare i dittatori non è certo innovazione: lo faceva già Charlie Chaplin negli anni Quaranta.
Ma forse il moderno lo fa lo spirito, il rifiuto di assecondare le regole caute che imbrigliano le storie sui temi più controversi. Anche quelle dello stesso Antonio Scurati che, preoccupato dall’idea di vedere il suo librone trasposto in una commedia nera, non voleva nemmeno riconoscerla. (Almeno poi lo ha ammesso – se per spontanea onestà o perché obbligato dai pettegolezzi, non è dato sapersi).
E infatti “M” sta anche per matta. Perché come ti viene in mente di ridicolizzare i fascisti e provare capire perché siano diventati tali? Da queste parti il fascismo siamo abituati a condannarlo con parole rigorose – poco importa che poi, nei fatti, nella sua fiera simbologia siamo ancora immersi, e non ce ne vergogniamo nemmeno. Con una certa follia, Stefano Bises (forse il più bravo per distacco) e Davide Serino hanno invece preso la storia e l’hanno lasciata raccontare direttamente a loro, ai fascisti. Hanno capito che, se i toni i grevi ingigantiscono, a far ridere si rimpicciolisce la paura.
Allora eccoli là, Mussolini e i suoi, che più parlano più si rivelano. Sono figure grottesche, inette, deformi, stropicciate, sgradevoli alla vista, che non si muovono per ideali – non sanno nemmeno cosa siano – ma per un bisogno quasi infantile di essere considerati. Uomini grandi e grossi che architettano le violenze più brutali, ma nella testa se le figurano come un teatro di marionette.

“M” sta poi per Marinelli. Lui che a Mussolini non somiglierebbe nemmeno a luci spente. Lui che ci accoglie in una penombra blu con gli occhi vuoti e le occhiaie scure, e subito ci sequestra per raccontarci la sua versione dei fatti, prima che qualcuno possa smascherarlo. Lo fa in un dialetto emiliano che lo rende più una buffa macchietta, che un aspirante dittatore. D’altronde, ci dice la serie, in origine era un perdente, un rifiutato, uno che ce l’ha fatta mandando avanti gli altri e tenendosi aggrappato agli scossoni della storia, per poi riemergere al momento di attribuirsene i meriti. Le sue non sono macchinazioni politiche, ma scelte improvvise fatte sull’onda dell’opportunismo (o della disperazione). E dietro le sue minacce non ci sono altro che grandi bluff.
Eppure M – Il figlio del secolo mette anche angoscia. Sarà che il regista Joe Wright ha voluto staccarla in parte dal realismo, collocarla in uno spazio quasi sospeso nel tempo, che rende più vividi e spaventosi i parallelismi con il mondo di adesso. O sarà che il suo Mussolini è un seduttore, tenta di ammaliarci con la normalità e con le parole (parla di “cuori” e generiche “cose bellissime”, come un influencer qualunque), e proprio quando ci si sta per cadere, un’ondata di violenza arriva a prenderci a sberle.
E qui viene la “M” di musica. Quella elettronica dei Chemical Brothers che pulsa incessante in sottofondo, come il temperamento che ribolle sotto le camicie nere, e poi esplode altissima quando parte la ferocia incontenibile e disorganizzata. E quando la musica tace resta comunque il rumore, un ronzio stridente che tiene vigili, ricorda alla pancia di non fidarsi troppo, ché la rabbia potrebbe tornare con ancora più forza.
Non sempre ci si riesce, a mantenere alta l’attenzione. Gli episodi sono lunghi, densi, affollati di parole, ma soprattutto non corrono verso un obiettivo così centrale da rinnovare ogni volta la tensione. Come purtroppo capita a sempre più serie, M – Il figlio del secolo è progettata come un film unico suddiviso in capitoli, ma questa è davvero l’unica possibile sbavatura.

Per il resto, la scrittura gira a mille, pulita e limata con precisione maniacale per colpire duro. Gira anche l’obiettivo, che si muove scatenato da un volto all’altro, in una cupezza tremula che trasmette incertezza. Tutto, ma proprio tutto, funziona a meraviglia. Ed è un piacere che da queste parti ci viene concesso così di rado che quasi non ci si crede.
Funziona meravigliosamente anche il contorno di facce attorno a Marinelli. Quella di Benedetta Cimatti, che con straordinaria naturalezza fa Donna Rachele, triste e trascurata, ma roccia del marito. Quella di Francesco Russo, che fa il minuto braccio destro Cesare Rossi, il primo ad accorgersi del potenziale politico del fascismo, ma anche a titubare della sua deriva. Lo stesso che accade a Margherita Sarfatti, amante alto-borghese ed educatrice di Mussolini, interpretata da una Barbara Chichiarelli che in ogni immagine sembra un quadro. E poi Vincenzo Nemolato, che ormai può permettersi di essere qualsiasi cosa, dal Riccardo Schicchi di Supersex a un rachitico e codardissimo Vittorio Emanuele.
“M”, infine, sta per mannaggia la miseria. A chi ha scambiato M – Il figlio del secolo per un documentario (piccolo spoiler: nemmeno i documentari sono mai del tutto oggettivi). A chi l’ha trovata troppo sperimentale ma poi, magari, si lamenta che la serialità italiana è sempre ferma allo stesso punto. Mannaggia anche a chi ha pensato che sia una serie pericolosa, perché a modernizzare la formula, a umanizzare Mussolini, poi c’è il rischio che qualcuno si esalti (altro piccolo spoiler: le destre, più che orgogliose, se ne sono mostrate parecchio irritate).
Per far sì che la memoria non si cancelli bisogna attrarre, intrattenere, fare rumore, provocare, trattare il pubblico da adulto. Solo che, a farci trattare da adulti, a tenere in mano i contrasti, non ci siamo più abituati.
Anche perché, più che far scoprire l’umano, M – Il figlio del secolo mostra la piccolezza dell’uomo.
“M. Il figlio del secolo” è su Sky e Now ed è composta da 8 episodi lunghi 50-60 minuti.
Guarda il trailerFoto di copertina: Sky