Tonfi e Trionfi nella tv di febbraio 2019
Quanto può la riuscita di un’idea dipendere visceralmente dalle convenzioni che la circondano? Tanto, come immaginabile. E per trovarne le prove ci si può anche solo accontentare dell’ultimo mese di uscite sui teleschermi. Le serie tv di febbraio 2019 sono state infatti tutto un brulicare di idee dalla qualità variabile nella misura con cui hanno saputo reagire alle consuetudini esterne.
C’è una serie, ad esempio, che non si è scoraggiata davanti alla convinzione generale che un’idea già vista non potrebbe mai essere originale. E ce n’è una che ha smentito testarda la diffusa credenza per la quale un inizio zoppicante sia un’incontrovertibile condanna. Tutto il contrario di due colleghe, insomma, che dalla paura di modellare schemi assai solidi (quello dell’agiografia e quello dello stereotipo) si sono fatte fin troppo intimorire.
Il meglio e il peggio delle serie tv di febbraio 2019
Tonfi: Dirty John e Non mentire
Ebbene sì, esistono casi in cui il thriller riesce a non appassionare. Anche quando s’ispira a una storia vera. Anche quando è remake di una serie di successo. Dirty John e Non mentire si sono affidate alla garanzia “narcisista aitante e manipolatorio trascina in un incubo una vittima a caso”. L’una raccontandola però con una sequela di ripetizioni che nemmeno Russian Doll. L’altra, invece, ristabilendo i cliché sovvertiti all’originale britannico. E dai quali il pubblico italiano, esaltato dalla sua infinitesimale qualità, ha probabilmente ancora bisogno di farsi rassicurare.
Trionfi: Russian Doll
L’idea del loop temporale non era affatto originale, il significato psicologico nemmeno. Solo, Natasha Lyonne, Amy Poehler e Leslye Headland l’hanno cosparsa di vivace brillantezza, dalla scrittura trascinante a ciascun personaggio, con affezione speciale per l’insolente protagonista. Chissà se il trio fosse conscio di aver creato la serie perfetta: fugace, spassosa e introspettiva. Di quelle che a fine stagione paiono compiute, eppure lasciano il desiderio di volerne ancora. Senza neppure ricorrere alla furberia del finale sospeso.
Tonfi: Io sono Mia
Ci risiamo, la Rai è caduta ancora nel vizio dell’agiografia. Questa volta della figura di Mia Martini, certo da proteggere, ma non tramite beatificazione. Perché edulcorandone la vita, privandola delle fragilità umane e dell’inevitabile malessere accumulato in anni di vessazioni, se ne svilisce anzi il ricordo, oltre a scollarlo dai significati ancora forti della sua musica. I quali, come invece riuscito egregiamente al biopic su Fabrizio De André, avrebbero dovuto essere la reale missione del film. Ma d’altronde, chi mai avrebbe osato criticarlo?
SuperTrionfo: Suburra
Che bellezza le serie tv che possiedono la consapevolezza di doversi migliorare. Aggiustate infatti le proprie incertezze, fioriscono e appagano. Suburra era inciampata alla partenza nel sensazionalismo ben conosciuto a Netflix, nell’imitazione vana di espedienti che han fatto grandi altri titoli. Poi ha compreso che per spiccare davvero avrebbe dovuto lavorare su quelli che parevano difetti, e trasformarli in pregi. La lentezza e il sottostare dell’azione al sentimento (insoliti per il genere) sono così diventati il fascino principale del suo racconto anti-machismo, dove l’eroismo cede alla paura e lo sprezzo per le diversità si scioglie in fiducia nell’amicizia. Altro che Green Book!
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