Serie TV

‘Non mentire’, la fiction remake delle (false) meraviglie

Quale sorta di stregoneria avesse mai colpito Mediaset, probabilmente rimarrà un mistero.

Nell’espandersi del grottesco impero barbaro-defilippico, Canale 5 – generalista del disagio – pareva infatti aver scovato un fazzoletto di palinsesto da riservare alla decenza.

A qualcosa di lontano dal solito circo di fatti e rifatti, lacrime e tronisti, buste e castelli.

A un racconto di qualità sconosciuta ai suoi standard e (guarda un po’!) addirittura dal lodevole messaggio sociale.

No, non come quello per il quale la pasionaria Dottoressa Giò millantava di immolarsi.

Bensì uno concreto, più acuto, che prima di schierarsi dalla parte delle donne, avrebbe esplorato anche i non pochi pregiudizi che talvolta si accaniscono sugli uomini.

L’aura del thriller, poi, avrebbe pensato a rendere il tutto più torbido e avvincente, facendo rimbalzare le convinzioni di chi sul divano tra le (false e non false) verità di un’insegnante battagliera e del brillante chirurgo da lei accusato di stupro nonostante le volatili memorie dell’appuntamento della sera prima.

Non mentire, era dopotutto il titolo perentorio.

Come anche l’invito a non raccontarsi troppe bazzecole e ammettere che sì, pur con colpevole consapevolezza, si avrebbe prima dato della visionaria a lei, poi iniziato a dubitare di lui, e viceversa, e ancora viceversa. Sempre in balia del preconcetto.

Che il meccanismo potesse funzionare, stavolta v’era più fiducia.

Perché l’idea s’ispirava paro paro a un successo (Liar) dei più navigati cugini britannici.

E perché, per mettere a tacere gli scettici, Non mentire si era concessa addirittura all’anteprima streaming. Non tutta (non sia mai!), ma per un tempo adeguato a mostrarsi finalmente più serie tv che fiction.

Trascorsi diciotto minuti, però, quest’ultima ha ripreso a reclamare il suo spazio.

Se del resto per decenni hai erudito le masse all’estetica del fotoromanzo televisivo, non riuscirai a farti da parte tanto facilmente.

Allora eccola, la solita fiction, tutta intenta a sporcare l’intreccio qua e là.

Con certi vecchi vizi, come la recitazione sospirata e qualche interpretazione agonizzante.

Come un po’ di sano riconvertirsi di stereotipi nazionalpopolari, nel dare al padre casalingo uno straccio di lavoro e alla direttrice di ospedale un volto maschile.

Come il giusto tocco di inevitabile didascalismo, intonando a voce ben alta gli sms già in primo piano e sostituendo la deduzione con dialoghi e inquadrature ben più esplicativi.

Così, per dispettoso rifiuto ad ammettere il calco totale dell’originale. E per non disorientare il pubblico dinnanzi a cotanta evoluzione narrativa.

In fondo, Mediaset è per definizione dannatamente cocciuta.

E pure scaltra, sebbene nessuno lo capisca (ironia).

Cosicché le tocca ogni volta correggere le proprie strategie dal senso oscuro – ma dalla chiara tendenza antiprogressista – per adeguarsi ai capricci di chi non vuole comprenderla (altra ironia).

Spesso intervenendo in corso d’opera, come per la vicenda della replica on demand negata e poi concessa, ma soltanto per insistenza della lamentela.

Spesso dovendo invece rimandare gli aggiustamenti a eventuali stagioni future.

Ma questo (non si scherzi) non è proprio il caso di Non mentire.

Questa serie è perfetta così com’è.

Lo dice il suo pubblico rassicurato. Lo dice buona parte di quella guastafeste della pseudocritica, che i difetti preferirà cercarli altrove (a occhio e croce in qualche pregevole co-produzione internazionale del servizio pubblico).

Nella conferma che rifiutare ostinatamente i nuovi standard seriali funziona, eccome.

Al primo passo mosso verso di essa, la mediocrità parrà ai più una meraviglia.

Se per clemenza, incoscienza o menzogna, tuttavia non è dato sapere.

Sfondo copertina: Freepik

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