‘Io sono Mia’, storia di un biopic mediocre ma non criticabile
Quant’è facile scrivere un biopic. In potenza, a oltre metà della sceneggiatura ha già provveduto il fato. Solo che poi, in atto, ci si ritrova a funambolare sulla sottile corda che separa la semplice giustapposizione di aneddoti dall’eccesso romanzato. Bisogna trovare un forte collante narrativo, insomma, ma senza snaturare l’essere di chi si racconta. Specie se la sua figura, nel tempo, si è elevata a una sacralità tale da rischiare il contraccolpo stordente dell’azzardo. E allora la faccenda diventa po’ più complicata.
Il vero dilemma è comunque capire se lo sia più dell’altro punto infausto della questione. Quant’è difficile, cioè, scrivere di un biopic. Perché è genere che quasi mai divide. Anzi, unisce. E perché, nel raro ammutolirsi dell’opinionismo irragionevole, l’eco della voce dissenziente risuona più forte. Meglio quindi lodare o tacere, in definitiva. Più leggendaria è l’aura del personaggio, minore sarà il diritto alla critica.
La prima sfida è brivido che a Rai Fiction e Nexo Digital deve piacere parecchio. Non tanto per l’operazione di omaggiare i grandi della musica italiana su pellicole da riproporre poi in tv – magari tagliandole in una manciata di puntate – sulla scia delle melodie sanremesi. Quanto piuttosto per la scelta di cominciare dal più grande dei grandi e cercare la riconferma con un volto altrettanto grande. Così, a un anno esatto di distanza, le vite di Fabrizio De André e Mia Martini si sono rianimate in storie ambiziose, catalizzatrici della rispettosa attenzione della memoria collettiva. Quest’ultima, di tutta risposta, ha però rifiutato di cogliere la seconda sfida, lanciando a priori accorati elogi. Condivisibili nel caso di Principe libero, decisamente meno in quello di Io sono Mia.
Dopotutto, chi mai oserebbe opinare sul ricordo di Mia Martini? È quasi più fragile di quanto non fosse la sua stessa anima, cristallo da proteggere e maneggiare con cura. Qualsivoglia perplessità – non importa se rispettosa – parrebbe sfregio, deturpazione.
A dire che il film di Riccardo Donna (sceneggiato da Monica Rametta) sia pregevole, si mancherebbe tuttavia di onestà intellettuale. Soprattutto perché la contiguità con il precedente firmato da Luca Facchini (insieme a Francesca Serafini, Giordano Meacci), pur rafforzando l’interessante coerenza del progetto, ne rivela spontaneamente la debole forza evocativa.
Sia nei meriti che nelle imperfezioni, Principe libero e Io sono Mia paiono infatti profondamente sovrapponili. Entrambi si costruiscono su memorie scatenate da un preciso espediente narrativo (il vero rapimento di De André nel 1979, da un lato, e un’intervista parzialmente immaginaria a Mia Martini per il suo ritorno alle scene nel Sanremo 1989, dall’altro), entrambi non oscurano la ruvidità del personaggio, entrambi si chiudono ben prima dell’effettivo spegnersi delle loro esistenze. Entrambi, infine, scivolano spesso sulla pulizia dell’inflessione.
Mentre l’uno è però intreccio armonioso di racconto e musica nel quale le immagini illuminano di significato i testi, l’altro (certo svantaggiato dal minutaggio parecchio inferiore) pare più sequenza sconnessa di episodi biografici e hit. L’essenza di Mia Martini s’intravede soltanto nel tocco ricercato dei Sanremo di repertorio riflessi nella telecamera. Tutto il resto si lascia percepire come sfoggio dei virtuosismi di chi la interpreta.
Se con magnetismo impressionante Luca Marinelli era De André, insomma, di Mia Martini Serena Rossi sembra invece più imitazione.
C’è una scena, in Io sono Mia, in cui i tavoli di un ristorante si svuotano nel panico frettoloso all’arrivo della reietta “iettatrice”. L’unico momento nel quale, dal suo guardarsi attorno, si percepisce acuto il misto di rassegnazione e amarezza. Il solo, ovvero, in cui Serena Rossi – pur molto brava – non si fa tradire un po’ dalla vitalità partenopea e un po’ dall’orgoglio del ruolo che portano il film a graffiare di entusiasmo, più che della rabbiosa malinconia di un talento amatissimo, eppure denigrato al punto da dover esibirsi alla prima sagra disponibile.
Di gran lunga più convincenti sono piuttosto Dajana Roncione e Antonio Gerardi (davvero mai deludente). L’esuberanza della fittizia Loredana Bertè e la morbidezza del produttore Alberigo Crocetta sì che conquistano, confermando che (sempre che tale sia) l’intento del progetto Rai nell’instillare curiosità per le figure raccontate può funzionare.
Riaccendere, sceneggiandoli, i significati di una musica che oggi potrebbe faticare a farsi capire è idea assai valida. Basta soltanto non ripararsi dietro il sacro scudo di chi l’ha plasmata. Perché può scoraggiare le critiche, certo. Ma non salvare dalla solita mediocrità.
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