‘Suburra’ è finalmente cresciuta. Ed è superba.
Il bello delle serie tv frenate in avvio da più di un’incertezza è che, quando poi riescono a liberarsi di tali sbavature (se naturalmente riescono a liberarsene), arrivano a risplendere di un valore tutto loro. In questo senso, Suburra ha una doppia unicità. La prima le deriva dal suo non accontentarsi di essere figlia di un paese in cui la tradizione seriale si divide in macrocategorie dai confini ferrei – i titoli ambiziosi, quelli irrisori, e quelli che vorrebbero rientrare nei primi e invece cadono della mediocrità. La seconda, dalla rara capacità di guardare dentro di sé per raccogliere le risorse necessarie a maturare.
In Italia, gli abbondanti teleracconti non nati nella culla della grandiosità difficilmente tentano infatti di varcare quei confini. Chi se ne importa se la pochezza dei dialoghi sprigiona disagio e i personaggi restano sottosviluppati all’archetipo, il punto fondamentale è raggranellare pubblico, rassicurarlo, e se proprio necessario scuoterlo con un po’ di malriuscito scopiazzare. Pseudo-seriofili ed esterofili se ne sentiranno lusingati, decantando subito una storia men che passabile quale miracolo di qualità (Non mentire ne è l’ultima prova).
Con consapevolezza e determinazione forse mai viste da queste parti, Suburra ha invece reagito. Dall’incipit che la voleva troppo somigliante a Gomorra e troppo smaniosa di stupire, si è evoluta episodio dopo episodio, iniziando – sulle ultime battute della prima stagione – ad alimentare il sentore che in futuro avrebbe saputo riservare qualcosa in più.
Fedele al suo mantra di copione, Suburra “stava a svoltà” e la conferma che ci sia riuscita ne arriva ora che è tornata su Netflix. Il suo secondo capitolo (più breve del precedente, che potete recuperare seguendo questa guida, nel caso non l’aveste visto) è più oscuro, meno ironico, e questa volta sembra avere bene in mente la strada da percorrere.
È quel che accade del resto ai suoi antieroi. Compreso di essere condannati al male, di non poter più convincersi che sia strumento momentaneo per evadere dalle proprie esistenze, i loro obiettivi cambiano. Perché se allontanarsi dal lato infernale di Roma è utopia, allora tanto vale lottare per prenderne il potere. Dunque, lo zingaro Spadino (il folle Giacomo Ferrara) pretende ora il comando del suo clan e Aureliano (la certezza Alessandro Borghi) la leadership di Ostia, come Lele (Eduardo Valdarnini) vuole il proprio tornaconto in polizia e il politico Cinaglia (Filippo Nigro) in Campidoglio. A conferma del secolare pantano di vizi tutto italiano, poi, la Capitale sullo sfondo – sebbene indietro di un decennio – si fa corrodere da cancri violentemente attuali (specie dalla speculazione sull’immigrazione).
Eppure, per scavalcare definitivamente le mura dei grandi titoli, Suburra non ha snaturato la propria personalità. Semplicemente, l’ha ripulita e perfezionata. Non ha ceduto al dilagare dell’azione né alla tentazione delle mosse più ovvie. Bensì ha tratto vantaggio dalla propria lentezza (in esordio anestetizzante), per riempirla dell’introspezione necessaria a far emergere la singolarità dei suoi tre protagonisti e del loro legame indissolubile, fin dagli inizi cuore della narrazione. Prendendosi cura del suo insolito abbracciarsi di selvaticità e sentimento, la serie ha spazzato via fiera qualsiasi ombra di dannoso confronto.
Finalmente Suburra non è più contraffazione di Gomorra. E nemmeno figliastra di Romanzo criminale.
Suburra è Suburra. È cresciuta. Si è fatta unica. Ed è superba.