“La regina Carlotta” è la versione migliore di “Bridgerton”
Piccola postilla prima di iniziare: questa recensione si basa su tutti i sei episodi di “La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton”.
Per Bridgerton il colore di pelle è sempre stato un elemento accessorio. Un insieme di sfumature calde e fredde, più o meno scure, generato – formalmente alla cieca, ma nel concreto maniacalmente assortito – per fondersi con i toni di prati, arredi, abiti, arazzi e parrucche voluminose (e qui c’è ancora chi non conosce l’armocromia). Il suo anomalo e idilliaco mondo ottocentesco, Shonda Rhimes lo aveva apparecchiato e poi offerto al pubblico così com’era, con il solo scopo di servire la bellezza delle immagini, senza dare troppe spiegazioni. Ma quest’epoca, si sa, sente il bisogno di elucubrare in maniera sparsa un po’ su tutto. E perciò, visti i dibattiti militanti sulla composizione razziale del contesto, Netflix ha colto l’occasione per fare uno spin-off che ne raccontasse la genesi.
Come nella serie originale, La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton fa introdurre gli eventi alla voce narrante di Lady Whistledown, l’anonima pettegola che ha le corde vocali di Julie Andrews e l’anima della stessa Rhimes. A differenza della serie originale, però, il messaggio è un avvertimento passivo-aggressivo a chi guarda. «Cari gentili lettori, questa è la storia della regina Carlotta di Bridgerton. Non è una lezione di storia. È finzione ispirata a eventi reali. Tutte le libertà che l’autrice si è concessa sono da ritenersi intenzionali. Buona visione». Qui siamo a Shondaland, insomma. Si fantastica a mio grandioso piacere. Non rompetemi i corsetti. Adesso possiamo iniziare.
La miniserie si sdoppia su due linee temporali: una più ampia, l’altra più ristretta; una nel passato, l’altra nel presente (quello di Bridgerton, s’intende). A unirle sono quel personaggio tagliato e tagliente della regina Carlotta e la sua lunga storia d’amore con re Giorgio III e la sua follia. Da essa, avevano accennato le stagioni precedenti, s’è infatti originata l’utopica alta società londinese dove l’etnia ha smesso di essere una discriminante d’ingresso. È il «Grande Esperimento» che la madre del re, la principessa Augusta (Michelle Fairley, qui una vedova assai algida e quindi più gradevole di quanto non lo fosse nel Trono di Spade), ha voluto per rattoppare l’immagine del matrimonio reale. Perché, se al tuo bianchissimo figlio trovi una sposa nera e la fai arrivare da un minuscolo ducato della Germania, vuoi non farla sentire a casa elevando a status invitabile alcuni suoi simili del reame?
Alla maniera zuccherosa di Bridgerton, l’inizio è romanticheggiante e movimentato. Il giovane Giorgio (Corey Mylchreest, quasi esordiente) ha rifiutato spose fino a sei ore prima del matrimonio, la 17enne Carlotta (India Amarteifio) si chiede quale sia la gabola per cui la monarchia inglese abbia scelto proprio una come lei. Lui la aspetta all’altare per obbligo, lei si abbarbica su una parete di glicine per fuggire, lui va a recuperarla, lei oppone logorroicamente resistenza, lui resta affascinato dalla dialettica di lei, e lei dal panciotto satinato di lui. La scintilla scocca. I sorrisi si ammorbidiscono. E tutto d’un tratto pare di essere al matrimonio di una coppia ventennale.
È questo però il punto in cui La regina Carlotta prende una strada diversa dall’originale. Libera dalla traccia dei romanzi di Julia Quinn, la scrittura di Shonda Rhimes ne ha invertito la struttura narrativa. Non si segue il solito lungo e in apparenza recalcitrante appaiarsi di due personaggi. L’attrazione e il sentimento stavolta sono esternati fin da subito, o quasi. A dare dinamismo alla storia, sporcando la finzione con qualche punta di reale, sono i tentativi di Carlotta e Giorgio di capire e gestire il precario equilibrio mentale di lui, e nasconderlo a un mondo certo inclusivo, ma un poco esitante all’idea di farsi governare da un matto. Attorno a loro, intanto, le storie di personaggi già conosciuti – dall’arguta Lady Danbury al valletto Brimsley – si ampliano attraverso le piccole battaglie personali e sociali intraprese dalle loro versioni più giovani.
Se nel passato si amoreggia e sospira (il sesso ansimante e coreografico, quello è sempre lo stesso), nel presente si parla invece di solitudine in una maniera che finora Bridgerton non aveva mai esplorato.
Collocata nel tempo tra la seconda stagione e la terza in arrivo, questa parte di trama spegne i balli estivi e i colori pastello. È pieno inverno, le api non ronzano, i corteggiamenti riservati ai giovani sono in pausa. E per i personaggi femminili più adulti è tempo di fare i conti con lo sfiorire delle proprie vite. C’è mamma Bridgerton (Ruth Gemmel) che riflette su cosa le rimanga oltre alla gestione delle inquietudini sentimentali dei figli. C’è Agatha Danbury (Adjoa Andoh) che guarda ai propri legami subiti, a quelli segreti, a quelli volutamente mancati. E c’è la stessa regina Carlotta (Golda Rosheuvel), ormai rassegnata all’assenza mentale del marito, che si chiede perché i suoi ventordici figli non vogliano accasarsi né darle almeno un erede.
Le riflessioni e le risposte che ognuno intesse per sé e per gli altri, pur autentiche nelle dinamiche, sono alquanto semplicistiche nella forma. Al loro interno Shonda Rhimes ha concentrato tutta la militanza che in Bridgerton aveva preferito mantenere a uno stato subliminale. Sorprendentemente, l’effetto non è troppo pruriginoso. A bilanciarlo ci sono i rimbalzi continui di battute rapide, sfiziose, affilate per bene e poi posizionate con cura. Mentre i personaggi – i più brillanti e sfaccettati che Rhimes potesse pescare dalle prolifiche casate bridgertoniane – travagliano tra questioni di malattia mentale e menopausa sentimentale, portando la storia verso dimensioni più tenere e sconosciute. La prevedibilità si riduce. E alla fine si piange pure.
“La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton” è disponibile su Netflix ed è composta da 6 episodi lunghi 53-86 minuti.
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