‘I Topi’, la mafia e il popolo
Esistono due modi per raccontare il cancro radicato della mafia. Ricostruirla in tutta la sua cruda efferatezza oppure destrutturane il gretto principio. Del primo si è servita Gomorra, forte nel lasciare increduli per brutalità. Del secondo si è avvalsa invece La mafia uccide solo d’estate, beffarda nel disorientare per comicità. Stesso espediente scelto da I Topi, che dal senso dell’assurdo trae la propria energia.
I topi sono potenzialmente infetti e hanno potere infettivo. I topi zampettano quatti nei cunicoli più stretti del sottosuolo. Un topo è quindi anche Sebastiano, per interpretare il quale, Antonio Albanese ha rispolverato un enfatico accento siciliano.
Il protagonista della comedy da lui stesso scritta e diretta è infatti un malavitoso trapiantato al Nord, dove ammorba i piani edilizi di un comune non precisato, in compagnia di una cricchia di corrotti. Il problema, però, è che Sebastiano è in realtà un latitante. In molti lo credono morto (non certo la polizia) e per poter riunirsi con la sua combriccola deve ingegnarsi non poco. Nel muoversi di covo in covo ogni mezzo torna utile, dal carretto agricolo al monopattino elettrico, meglio se camuffandosi da donna (o sosia malriuscito di Renato Zero). In suo aiuto è sempre pronto ad accorrere U Stortu (il formidabile Nicola Rignanese), compare dal biondo posticcio.
Non proprio un’eroica e malinconica latitanza alla Don Pietro Savastano, dunque. Anche perché, il resto delle sue giornate, Sebastiano lo trascorre recluso nella sua villetta, con una famiglia tutt’altro che ligia alla sua autorità. Un poco succube è soltanto la moglie Betta (Lorenza Indovina), mentre i figli non hanno alcuna intenzione di seguirne le orme. Carmela (Michela De Rossi), risponde solo al nome Carmen e studia economia, Benni (Andrea Colombo) è invece un’adolescente con la passione per la cucina molecolare. Completano il quadro zia Vincenza (Clelia Piscitello), scommettitrice incallita, e zio Vincenzo (Tony Sperandeo), felice di vivere da anni in un bunker sotterraneo, ascoltando Isoradio e dissacrando quel che lo circonda con un solo scurrile epiteto. Uno squillo di citofono – il conto finale è da record – e a Sabastiano tocca raggiungerlo lesto, infilandosi nel groviglio dei tunnel che collegano la casa. Spesso, sbagliando via.
La venatura di passaggi segreti annulla la staticità dei sei episodi di mezz’ora (in arrivo su Rai 3 e già disponibili su RaiPlay), che scorrono perlopiù in ambienti teatrali e soffocanti, in cui rimbombano le escandescenze farneticanti del boss atipico, corretto dai figli nel congiuntivo, inabile nel messaggio in codice, maldestro nell’affare losco.
Dal pretesto mafioso, la serie – recitata al meglio – finisce così per ricalcare il prepotente e attuale ritorno all’oscurantismo. Dopo Cetto La Qualunque e il Ministro della Paura – che nel circo di oggi parrebbero pur moderati – Albanese sposta la sua spaventosa lungimiranza politica e sociale sul fronte opposto. Quello del “popolo”, come va ormai di gran moda appellarvisi.
Sebastiano è maschilista, sua figlia “è diventata dottoressa, ma” promette “cucina bene”. Per lui l’educazione è vergogna (“Dà nell’occhio”) e l’istruzione è fastidio (“Dobbiamo cercare un appassionato di medicina. I medici laureati sono troppo ambiziosi e parlano troppo!”). La sua reclusione forzata (e un po’ voluta) è metafora del pauroso e rabbioso rifiuto all’apertura, al diverso, al cambiamento.
Il morbo da cui è affetto è la cieca ignoranza.
Ma il fatto assurdo rispetto alla realtà è che a lui non riesca di infettare la società attorno.
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