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‘Maniac’, follia onirica che crea dipendenza

Nei frammenti di buio tra una scena e l’altra il vostro riflesso sullo schermo sarà in preda a un caleidoscopio di sensazioni. Perplesso prima, avvinto un secondo dopo, e poi ancora divertito, stranito, intenerito. Effetto collaterale di Maniac, droga sperimentale, allucinogena e creatrice di dipendenza.

Un po’ come le tre allegre pasticche – A, B e C – che i suoi due stessi protagonisti trangugiano quali cavie di un trial (un esperimento, per dirla all’italiana) farmaceutico dalla promessa sensazionale: guarire in modo permanente da qualsiasi disturbo mentale. Owen e Annie – gli impeccabili Jonah Hill ed Emma Stone – qualche piccolo problemino lo palesano, in effetti. Schizofrenico lui, tossicomane dai tratti borderline lei, uniti da un trascorso famigliare che li ha portati, nel tempo, a erigere muri attorno alle proprie fragilità. Se Owen è la pecora nera di una ricca dinastia alla Succession, Annie una famiglia non la ha quasi più. Per soldi – dice lui – per masochismo – si convince lei – eccoli allora rinchiudersi nei laboratori della Neberdine Pharmaceutical and Biotech. La verità, però, è che a muoverli sono il senso di colpa, la solitudine, la certezza di essere sbagliati.

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Ad attenderli, c’è un viaggio psichedelico nelle proiezioni del subconscio, attraverso cui rielaborare e sradicare finalmente i traumi del passato.

Roba molto più complessa a parole, che nella resa concreta. Nell’adattamento dell’omonima idea norvegese, infatti, la scrittura di Patrick Somerville e la regia di Cary Fukunaga sono ben lontane dall’indecifrabile misticismo dei rispettivi precedenti, The Leftovers e True Detective.

Maniac applica piuttosto la psicologia più spiccia e masticata. I disturbi sovrabbondano, stilizzati (ma mai banalizzati), e non risparmiano proprio nessuno. Neppure l’inventore della pretenziosa cura. Il Dr. Mantleray – un gradevolmente insolito Justin Theroux – è uno “scienziato pazzo” oppresso dal peso della madre Greta – la leggenda senza età Sally Field – blasonata guru della psiche.
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Del resto, anche le corde essenziali della trama non risuonano certo per originalità. Due anime desolate si scoprono inspiegabilmente interconnesse, realizzando che il primo passo verso la felicità è avere qualcuno con cui condividere le sciagure della vita. L’eco del sentimentalismo, ovvero, è giusto dietro l’angolo.

Nel mezzo, affiora però tutto un brulicare di dettagli sui cui la serie Netflix costruisce la propria unicità. Il mondo narrativo di Maniac è minuzioso e insano quanto basta per tradursi in un’ipnotica sinfonia.

C’è la New York di un futuro vicino, squallida, scolorita e dallo stile anni 80, dove svetta la Statua dell’Extra Libertà (doppione alato dell’originale) e dei piccoli “Poop Bot” liberano i marciapiedi da sgradevoli escrementi (il brevetto è qui, qualcuno si sbrighi a produrlo!). C’è il rumoreggiare della tecnologia vintage. E c’è un laboratorio un po’ giardino zen e un po’ navicella degli orrori, munito di intelligenza artificiale retrò, bottoni luminosi e celle d’alveare per giacigli.

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Ma soprattutto, ci sono loro, i sogni. Uno (o quasi) per episodio, espediente perfetto per scandire la storia, concedere virtuosismi ai suoi creatori, fare sfoggio delle doti camaleontiche dei suoi protagonisti. Ogni fantasma affrontato in fase REM, assume infatti le sembianze di un genere cinematografico. Dalla commedia anni 80 al gangster movie, dal fantasy al noir e alla fantascienza, gli omaggi ai cult pullulano, smaniosi di farsi riconoscere. La struttura finale ricorda Inception – pur meno matriosca di sogni – e incarna la versione migliore a cui The Generi avrebbe potuto aspirare – pur somigliandole in qualche parodia poco riuscita.

Una sequenza di mini-film, insomma, tasselli di un disegno più grande.

Maniac non crea assuefazione seducendo la curiosità di vedere quel che accade nel capitolo successivo. Lo fa, bensì, solleticando i sensi con atmosfere dai colori al neon, con il suo essere senza tempo, con il suo mostrarsi nebulosa nella realtà e vivida nel sogno, con il suo continuo modulare dramma e leggerezza.

Vibrante, onirica e folle. Maniac disorienta prima, per rivelare il suo significato soltanto a visione compiuta. Dopodiché, si consiglia caldamente di ignorare i titoli correlati e ricominciare invece daccapo (almeno dai primi quaranta minuti). I tasselli di trama rimasti nascosti si illumineranno di senso al solo passare dello sguardo.

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