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Superba… Unica… ‘Pose’!


Ogni puntata di Pose inizia sempre alla stessa maniera. Lo schermo nero, il cigolio di una porta, il riecheggiare di un paio di tacchi. Non si sa di chi siano, ma se ne avverte la fierezza del passo. Poi d’improvviso le luci si accendono. C’è una sala da discoteca e un’enorme scritta luminosa che esplode in una cascata di lustrini rosa. E finalmente la musica parte baldanzosa.

Questa serie è proprio come quella sala. Ci si entra al buio, senza saper bene cosa aspettarsi, semplicemente attratti dalla sua aura di elegante superbia. Ma una volta dentro, se ne rimane ipnotizzati dal caleidoscopio di colori e vibrazioni.

L’ha creata quello stacanovista seriale di Ryan Murphy – insieme a Brad Falchuk e Steven Canals – per raccontare il microcosmo dei ball, una fetta della cultura LGBT piuttosto sconosciuta alla tv e ritratta negli Anni 90 dal documentario Paris Is Burning.

“La categoria è…” annuncia con enfasi leziosa il maestro di cerimonie Billy Porter. Ed ecco iniziare il farsi largo ad ampie falcate verso il centro della pista per sfidarsi a colpi di sfilate, passi di danza e ovviamente pose. I temi variano dal marziale a Dynasty, dal volto più bello al corpo più florido. La costante, invece, è il bisogno di reclamare angoli di società e stralci di cultura condivisa dai quali gay e transessuali, afro e latinoamericani sono sempre stati esclusi.

Dietro i vezzi esibiti, dietro i trofei manufatto dell’eccesso, c’è molto di più: la voglia di rivalsa e di veder riconosciuta la propria autenticità, come di ovattare l’anima fragile per non far filtrare la ferocia del mondo esterno.

Là fuori svetta infatti la New York del 1987, che trasuda ancora discriminazione e dove serpeggia il fantasma dell’HIV. Le ballroom sono quindi un rifugio e le house che vi si danno battaglia non sono semplici squadre, bensì famiglie allargate di coinquilini dai trascorsi difficili abituati a condividere tutto, beneficiando della protezione di una “madre”.

“Madre”, ad esempio, è la leggenda (assai bitch) del ball, Elektra Abundance (Dominique Jackson). “Madre” intende diventare Blanca (MJ Rodriguez) dopo aver scoperto di essere sieropositiva, accogliendo nella sua neonata house, il ballerino senzatetto Damon (Ryan Jamaal Swain) e la prostituta Angel (Indya Moore). Quest’ultima diviene presto anche l’elemento di collisione con l’altra metà fervente della Grande Mela, quella degli yuppie alla scalata della Trump Tower, dove è appena approdato Stan (Evan Peters), che ha ambizioni poco feroci e un matrimonio solido, almeno fino all’imbattersi nel magnetismo di Angel.

Il gruppo di protagonisti, insomma, è visibilmente esteso. Eppure, tutti conquistano in egual maniera (ok, forse qualcuno un po’ di più). Perché delle loro storie ad ampio fondo di verità, dei vezzi e delle sofferenze di ciascuno pulsa il cuore di Pose. Cosicché non esistono antagonisti. Solo uno, anzi. Ed è l’esatto surrogato di Trump (con il volto di un quarantenne Dawson Leery).

Pose racconta il passato, ma in realtà fotografa il presente. Di tanto in tanto inciampa nel sentimentalismo retorico (e nella lunghezza smisurata di alcuni episodi), ma crescendo prende forma e strappa pure singhiozzi. Brilla di sensibilità ed è la sintesi compiuta dell’universo di Murphy. Un ibrido di tutti i suoi immaginari precedenti, che affascina anche i non estimatori del suo genere, esplorando il lato autentico di un mondo da sempre emblema dell’artefatto.

“Siamo fortunate, noi creiamo noi stesse” una queen rivale cura Elektra dal dolore del sentirsi incompleta.

Esattamente quel che ha fatto Pose, definendo una categoria seriale tutta per sé.

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