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Il bello di ‘Mindhunter’

Il bello di Mindhunter è torbido, schivo e non si lascia decifrare molto facilmente. Chiedi a un suo estimatore la ragione di tanto entusiasmo ed è improbabile che la risposta sia netta e decisa. Descriverla aggrappandosi a canoni precostituiti non si può: il suo racconto sulla nascita della psicologia criminale moderna negli anni Settanta – basata sul libro Mindhunter: La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano – è stato costruito scansandoli uno dopo l’altro. Cosicché vien da pensare che il suo bello, forse, sia il non concedere certezze, il rivelarsi sempre diversa da come appare.

Sembrava il solito crime, Mindhunter. Di quelli con la solita coppia antitetica di agenti FBI sulle tracce dei soliti serial killer tanto contorti e sadici quanto è necessario spostare più in alto l’asticella del raccapricciante. E invece ha presentato gli agenti Holden Ford (Jonathan Groff) e Bill Tench (McCallany) – la matricola e il navigato, l’entusiasta e il prudente, lo scapolo e il padre di famiglia – che dell’azione sfrenata, quella dell’ultima vittima salvata in extremis, e degli interrogatori da pugni sul tavolo proprio non sanno che farsene. Il loro lavoro non prevede eroismi, bensì placide conversazioni con noti assassini, congetture e ricostruzioni di profili psicologici con l’aiuto dell’algida professoressa Wendy Carr (Anna Torv), per poter meglio identificare quelli che ancora non si sono fatti catturare.

Per questo sembrava noiosa, Mindhunter, con i suoi episodi lunghi e volutamente lenti che i crimini li narrano solo a sguardi e parole. E invece ha saputo dimostrare che se sguardi e parole li si modella e posiziona con la giusta cura, l’effetto è anche più angosciante di tante altre storie crude e spietate. Le paure peggiori, del resto, sono quelle amplificate dalla mente a cui non viene concesso l’esplicito.
Mindhunter-Netflix-recensione
Netflix

Di corpi straziati quindi non c’è traccia, se non giusto su qualche fotografia inquadrata di sfuggita. I crimini bisogna figurarseli ascoltando i racconti dei vari Ed Kemper, Charles Manson, Jerry Brudos, David Berkowitz, Wayne Williams, che un po’ mettono i brividi (specie quando se ne scopre l’incredibile somiglianza alla realtà, come mostra questa intervista a Manson recuperata da Esquire) e un po’ sono comicamente umani, narcisi bisognosi d’attenzione, gelosi l’uno dell’altro, infantili, corruttibili, boriosi fino al ridicolo (“Non è facile, massacrare la gente. È un lavoro duro.”) e dalla mente non sempre raffinata.

È il loro vaneggiare perverso, il fulcro di Mindhunter. E pure il motivo per cui questa serie dalle trame interrotte, senza epilogo, sembrava non sapere dove andare a parare.

In verità, però, è un nastro in continuo scorrimento, su cui ogni tassello si aggiunge al momento meglio opportuno per fare la sua parte. Tra una visita in galera e l’altra, la prima stagione ha mostrato le basi della profilazione criminale e rivelato pian piano l’indole dei suoi personaggi. La seconda – uscita estiva di Netflix – ne mette invece in pratica i progressi su di un caso sviluppato quasi sull’intero capitolo, intrecciandolo alle loro vite.

Quella del killer dei bambini di Atlanta, che tra il 1979 e il 1981 uccise almeno 28 giovani afroamericani, è l’occasione per correggere pregiudizi (tornati attuali) devianti per le indagini (davvero il colpevole non può che esser bianco, mosso da odio razziale e membro del Ku Klux Klan?) e dimostrare agli scettici l’utilità della scienza comportamentale. La quale, nel frattempo, impatta sulla capacità del trio protagonista di mantenersi in equilibrio tra i propri limiti. Il delirio di onnipotenza di Holden (che brilla nello sguardo estasiato dinnanzi al leggendario Manson) deve misurarsi con la sofferenza di una comunità e le lungaggini burocratiche. Bill deve capire come rapportarsi con il figlio adottivo – coinvolto in un caso di omicidio – e tracciare un confine tra problemi lavorativi e familiari. Wendy, infine, deve imparare a gestire la tentazione di psicanalizzare tutto e tutti, anche la sua nuova relazione con la barista Kay (Lauren Glazier).

Mindhunter-Charles Manson
Netflix

Il resto dei tasselli procede in parallelo. Ci sono le immagini desaturate, le musiche ipnotiche (difficile saltare la sigla fatta dei clic degli ingranaggi di un registratore), le inquadrature attente a muoversi con il può minimo sollevarsi di dito – nel perfetto stile di David Fincher – e le inquietanti aperture di puntata al seguito di un serial killer, Dennis Rader, che per molti anni agirà ancora indisturbato.

Sa infatti esattamente in quale di direzione procedere, Mindhunter. Solo, rilascia indizi in maniera assai riflessiva. E intanto angoscia, diletta, istruisce, affascina ben oltre il limite dell’episodio.

Perché lavora anche sulla nostra, di psicologia, per eludere le certezze che serie crime dopo serie crime pensavamo di aver acquisito. Il suo magnetismo si compone di ignoto. Ed è questo il suo bello.

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