Come Netflix ha cambiato ‘La casa di carta’
Se c’è un fatto difficile da negare, è che quando Netflix fiuta un titolo dal buon potenziale e decide di farlo suo, s’impegna a svilupparlo con tutte le risorse a sua disposizione. Perché è scaltro, tanto scaltro. E per ogni peccare di miopia, ingenuità o più semplice povertà del network di turno, s’allunga sornione per proporre ai creatori liquidati una seconda (e magari più ambiziosa) possibilità e sussurrare al pubblico disperato che no, non dovrà immaginare come quella stagione bruscamente interrotta sarebbe andata a finire.
In tutte le serie cui dà nuova vita (che iniziano a esser numerose, ormai), il cambio di passo in genere c’è e si vede. “Trattamento Netflix”, lo si potrebbe etichettare. E metta mano alla sofisticata Black Mirror o all’ammiccante Lucifer, si affida il più delle volte al trucco dell’esagerazione.
Del quale, in realtà, La casa di carta non aveva poi molto bisogno. Le prime due parti della serie spagnola sulla rapina alla Zecca di Madrid – prodotte dalla rete generalista Antena 3 – sono state un’escalation di assurdità eroiche che ha messo a dura prova la più tenace sospensione d’incredulità. Il loro problema, piuttosto, era l’ostinazione tipica della serialità da teleschermo tradizionale: quella che allunga la storia il più possibile su di un numero alquanto sostanzioso di episodi, con forte rischio di disperdere la tensione.
Eppure l’attesa terza parte (la quarta sarà rilasciata nel 2020) si è mostrata ancor più iperbolica di quanto già non fosse. Il “celodurismo” netflixiano trasuda da qualsiasi inquadratura.
Esagerata è così la nuova rapina alla Banca di Spagna (ci sono peripezie subacquee e forni per fondere lingotti d’oro, per intenderci). Esagerata è la ragione scatenante (ricattare la polizia per avere indietro l’hacker Rio, che ha avuto la brillante di idea di rendersi intercettabile). Esagerati sono gli sfondi esotici dove si nasconde il resto della banda, i vezzi dei nuovi personaggi (un’ispettrice che trangugia zuccheri, un capogruppo che si muove con estro sadico da Arancia Meccanica), i moralismi sociali, la capacità di reinventarsi del Professore e quella di irritare della perenne inappagata Tokyo. Esagerato, infine, è l’accento sulla metafora di resistenza partigiana che lusinga il sentimento antisistema del momento.
Stavolta però il creatore Álex Pina ha concentrato il tutto in molte meno puntate di durata accettabile (otto in totale, lunghe al massimo un’ora) e stretto le maglie della catena fatta di flashback ante rapina e ritorni al presente. Ristabilita la continuità della suspense, dunque, non c’è tempo (o quasi) per soffermarsi sull’inverosimiglianza delle prodezze dei personaggi.
Con la cura Netflix, insomma, il brodo prima assai annacquato con buchi di trama, evoluzioni improbabili, frasi fatte e rilanci da telenovela di La casa di carta si è ridotto un poco (ma si poteva già ridurre con questa guida completa per vederla senza annoiarsi, comunque) .
Il che non distoglie affatto gli scettici – tra cui la sottoscritta – dall’idea che i banditi con la tuta rossa e la maschera di Dalì non stiano tanto rubando – come dicono – i preziosi minuti di vita delle autorità, quanto quelli che si dedicherebbero a un racconto meno banale.
Ma il merito del trattamento netflixiano nel prendere un crime mediocre, farne un marchio virale e creare un coinvolgimento diffuso come forse mai sia accaduto per una serie europea – la più vista, pare, tra i suoi contenuti non anglofoni – quello sì, lo si deve riconoscere.
Basta soltanto ricordarsi di fare le dovute proporzioni. Di ammettere che l’attrazione per La casa di carta è fatta un po’ di senso del riscatto, un po’ di contagio seriale e un po’ di quell’intruglio di sentimenti sospirati che, non fosse velato di prevedibile azione, verrebbe probabilmente snobbato.
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