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“La legge di Lidia Poët” fa le scarpe alla fiction generalista

È longeva abitudine televisiva perlustrare gli annali in cerca di eventi e personaggi da raccontare, modellandone le storie secondo le priorità tematiche del momento e i gusti dei propri spettatori. Dalle parti di Netflix, ad esempio, si prediligono volti quasi adolescenziali, attivismi di semplice comprensione, misteri da risolvere, e un po’ di nudità da clickbait (l’ha imparato da HBO).

A questo trattamento è stata sottoposta anche la biografia di Lidia Poët, figura di ammirevole determinazione, che nella Torino di fine Ottocento si battè a lungo (tre decenni circa) per poter esercitare la professione di avvocata, fino a quel momento vietata alle donne non dalla legge, bensì dalla diffusa convinzione che la frivolezza delle loro chiacchiere e la leggerezza dei loro abiti avrebbero messo in ridicolo la seriosa autorevolezza delle aule di tribunale.

La legge di Lidia Poët, prodotta e co-diretta da Matteo Rovere, parte dall’inizio di tale battaglia. E cioè da quando, vedendo rifiutata la sua iscrizione all’albo degli avvocati in quanto donna, Lidia Poët decise di approcciare la questione in maniera indiretta: fare da assistente al fratello avvocato, nell’attesa di un ricorso, occupandosi dei casi di donne, minori ed emarginati.

La serie se li è immaginati come una collezione di sei gialli a sé stanti, che la protagonista sviscera con gli occhi furbi di Matilda De Angelis e la testardaggine poco etica che appartiene ai classici detective televisivi: si infila spavalda dove non le è concesso (cioè ovunque: indossa una gonna), inchioda con domande dirette, applica tecniche investigative non ancora conosciute in Italia, disarma i suoi interlocutori con battute taglienti e i sospettati assassini con rischiosi bluff.

Sul personaggio e sugli eventi, La legge di Lidia Poët fantastica parecchio. Quanto basta per farli sembrare ambientati ai giorni nostri, non ci fossero carrozze e calamai. Lidia è una macchia di colore in ambienti cupi, Lidia impreca come gli uomini, Lidia bacia per le strade di Torino (ma solo dopo richiesta di consenso), Lidia è sessualmente libera e ce lo mostra già nella prima scena, Lidia si batte per far prevalere la competenza dei giovani sulla convenienza dei vecchi, Lidia si spende per cause piuttosto attuali (si parla di femminicidio, patriarcato, omofobia, e ci sono anche gli anarchici!). Poi, alla fine di tutto, Lidia lacrima di commozione per essere riuscita a cambiare un pezzetto di Italia.

Così com’è, concentrata sul rassicurare le diverse suscettibilità del periodo, La legge di Lidia Poët dà l’impressione di sprecare parte del suo potenziale storico e narrativo. I casi di puntata sono blandi, ma potrebbero ambire a una complessità maggiore. E poco ci si sofferma sul sofferto tacere di Lidia ogni volta che un tale baffuto la rimette al suo posto trattandola come una bambina fin troppo fantasiosa.

I dialoghi, però, hanno la sostanza degli scambi rapidi, dei battibecchi affettuosi, degli insulti intelligenti (quelli tra i fratelli Poët sono assai appaganti), delle parole finalmente non stucchevoli. E finalmente ci sono interpreti bravi ad animarli di smorfie, movenze, sbattiti di palpebre piuttosto naturali. Gli episodi scivolano via piacevoli, e la tv in streaming finisce per fare la parte che dovrebbe competere alla fiction generalista.

“La legge di Lidia Poët” è disponibile su Netflix ed è composta da 6 episodi lunghi 40-52 minuti.

Guarda il trailer

Immagine di copertina: Netflix

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