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Il significato reale di ‘Leaving Neverland’

Dalla sua locandina null’altro che nebulosa, Leaving Neverland dice di essere “Difficile da guardare, più duro da ignorare, impossibile da dimenticare”. Il climax giunge in prestito da Rolling Stone (dall’articolo post Sundance Festival 2019 di David Fear) e stavolta non è manierismo critico né sensazionalismo promozionale. Il documentario angloamericano – prodotto da HBO e Channel 4 – sulle accuse di presunti abusi sessuali contro Michael Jackson è esattamente così. Colpisce, disorienta e muove senso di disagio. Non tanto però per i dettagli disturbanti – che non lasciano scampo, ma occupano un’ora scarsa delle quattro totali divise in due episodi. Bensì per l’assenza di opinioni antitetiche e preconfezionate con le quali schierarsi. Il che obbliga, per farsene una propria, a elaborare una vicenda dove un intero sistema sociale ha la sua fetta di complicità e che – essendo più comune di quanto si pensi – va oltre la figura piccola di Michael Jackson.

La struttura narrativa costruita dal regista inglese Dan Reed è a tale scopo atipicamente scevra da zone di comfort. Un’intervista che ripercorre in maniera molto lineare le vite di James Safechuck e Wade Robson, un quarantenne e un trentaseienne che da qualche anno affermano di essere stati soggiogati e sessualmente abusati da Michael Jackson quando ancora bambini, tra la fine degli anni 80 e la prima metà degli anni 90.

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Michael Jackson con Wade Robson, all’epoca 7 anni, e la sua famiglia

Rompendo con le abitudini del genere, però, Reed evita accuratamente l’intervento di esperti, avvocati o voci della controparte. Il focus si restringe soltanto al racconto loro e di madri, fratelli, mogli, ricostruendo come l’incontro con il cantante abbia impattato sulle loro esistenze, travolgendole.

I percorsi paralleli che se ne traggono sono incredibilmente somiglianti. Entrambe le famiglie conducono una vita tranquilla e relativamente agiata, entrambe fanno la conoscenza di Jackson in normali occasioni di notorietà per i rispettivi figli (uno spot della Pepsi e un concorso per piccoli imitatori), entrambe decidono di abbandonare tutto (anche l’Australia, nel caso dei Robson) per coltivare le prospettive di successo incentivate dalla popstar tra partecipazioni a video musicali e concerti.

Jackson, dal canto suo, se ne conquista una fiducia che supera il puro interesse materiale e l’appagamento di sentirsi speciali habitué della tenuta di Neverland. Come narrano fax, conversazioni telefoniche e spensierati filmini casalinghi, Jackson diventa un figlio e un fratello maggiore (e considerandone l’infanzia traumatica forse ci crede davvero), a cui dare a propria volta rifugio dalla notorietà e del quale non sospettare nemmeno quando – al sorgere delle prime denunce di molestie su minori da altre famiglie – propone di dormire insieme ai bambini in stanze isolate, rese inavvicinabili da campanelli di allarme.

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Michael Jackson e James Safechuck, che all’epoca aveva 10 anni, durante un viaggio alle Hawaii nel 1988
A disorientare, tuttavia, è l’insolito linguaggio mediale con cui gli aneddoti vengono formulati. Specie per quel che riguarda il rapporto tra Jackson e i due protagonisti, che pare quasi consenziente. “Abbiamo fatto sesso qui, qui e anche qui” dice Safechuck ripercorrendo la sua mappa mentale di Neverland e tenendo in punta tremula di dito gli anelli ricevuti in cambio per suggellare la relazione. Nessun compenso concreto ha invece da mostrare Robson, se non una carriera da precoce coreografo di superstar di fine millennio (da Britney Spears agli *NSYNC), che lo ha tenuto legato al suo mentore almeno fino ai vent’anni.

Qui non si parla dunque di mostri, vittime e genitori degeneri. Ma si tenta piuttosto di districare il fitto telaio di dinamiche psicologiche in gioco. Quelle che hanno resistito anche al dolore di vedere Jackson passare a più giovane bambino (con rispettiva famiglia). E quelle che spiegano l’incrollabile fermezza nel difenderlo, pure sotto giuramento, pur una volta compresa la nocività della relazione. Safechuck e Robson, come spesso accade, hanno cominciato a manifestare i primi strascichi dei traumi soltanto intorno ai trent’anni – quando un po’ si è costretti a un primo bilancio di vita – e con adeguato supporto terapeutico. Fino a quel momento, dicono, hanno continuato a vivere le proprie vite come “uomini funzionanti”, più che normali.

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Il coreografo Wane Robson e l’ex attore James Safechuck con il regista Dan Reed (al centro)
Così, per quanto gli aneddoti sconcertino, Leaving Neverland sospende il giudizio per muovere comprensione.

Il suo scopo non è provare l’onestà di Safechuck e Robson, o sollevare scetticismi. Per quello c’è After Neverland, lo speciale in cui Oprah Winfrey rivolge loro gli interrogativi che sorgono spontanei durante la visione.

E il suo scopo – purtroppo già travisato – non è nemmeno spazzare via l’eredità culturale di Michael Jackson. Perché la sua insana sofferenza, le stranezze e la pochezza infantile (che traspare da un pensiero limitato a “felice”, “triste”, “Dio” e “cuore”) sono sempre state eloquenti, eppure ignorate per il buon vivere di tutti. Destinare ora il suo fantasma al trattamento #MeToo, insomma, sarebbe ipocrisia.

Come sarebbe illusorio credere invece che questo documentario serva a raccontarsi che oggi, nell’era del dopo abominevole Weinstein, un fatto simile non possa ripetersi. Considerando anzi la smania esibizionista, Instagram pullulerebbe probabilmente di genitori intenti a smuovere invidia in diretta dal ranch dei sogni.

Leaving Neverland, piuttosto, trascende la semplice figura di Michael Jackson. Il suo privato ombroso non è che un pretesto (in parte voyeuristico, certo) per affrontare il tema dell’abuso sessuale nell’esatta maniera in cui andrebbe trattato. Come un incastro complesso di legami reciproci, cioè, dove diversi gradi di fiducia innescano su tutti i fronti meccanismi di negazione. Provando a suggerire che essere ascoltati in silenzio, mentre con estrema lentezza (e non senza vergogna) rielaborano le proprie storie, è un diritto di cui i diretti coinvolti non dovrebbero mai essere privati.

“Voglio riuscire a dire la verità con la stessa voce alta con cui ho dovuto dire questa bugia” dice Robson nel film. E non c’è ragione che possa negarglielo. Neppure a distanza di un ventennio.

Trasmesso in Italia da NOVE, “Leaving Neverland” è disponibile anche su Dplay.

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