“Black Mirror” non sembra più “Black Mirror”
Piccola postilla prima di iniziare: questa recensione si basa su tutti i cinque episodi della sesta stagione di “Black Mirror”.
L’episodio che chiude la sesta stagione di Black Mirror non sembra affatto un episodio di Black Mirror. È il compimento della trasformazione di una serie che ha sempre detestato concedere al suo pubblico la presunzione di crederla prevedibile.
Charlie Brooker, l’umorista britannico che nel 2010 la portò in televisione, ne aveva dato preavviso: i nuovi episodi si sarebbero sbarazzati di molti vecchi presupposti, per creare una Black Mirror rinnovata, indefinibile, più folle e spaventosa. O forse, spaventosa in maniera diversa da come si era mostrata finora.
Sulla riuscita del tentativo, non tutti sono concordi. Ma di certo non ci si aspettava che l’annunciata evoluzione della serie sarebbe stata un graduale percorso a ritroso, un ritorno a un passato nemmeno troppo vicino.

Quella gradualità, Black Mirror l’ha cosparsa più o meno ovunque: nella struttura, nei tempi dei suoi racconti, nell’uso di tecnologie che dal futuristico si fanno via via più datate, tornando ai videoregistratori, alle musicassette, ai telefonini coi tasti, agli schermi analogici, e dividendo precisamente a metà la cinquina di nuovi episodi.
I primi due, Joan è terribile e Loch Henry, ambientati nel nostro presente, ruotano attorno a Netflix stessa Streamberry – ops – ai dati dei suoi utenti spiati e poi usati per creare serie tv in tempo reale che ne raccontano infedeltà e lati meno amabili, a una smania di alimentare la morbosità per il true crime che consuma luoghi e persone, fino a sfociare nell’horror.
I due episodi conclusivi, Mazey Day e Demone 79, alle piattaforme streaming e all’intelligenza artificiale non pensano nemmeno, invece. Le loro storie regrediscono prima alla Los Angeles del 2006 e poi all’Inghilterra neo-tatcheriana del 1979, per osservare altre forme simili di morbosità: quella per i fallimenti e le devianze di chi è famoso, un tempo servita dall’amoralità dei paparazzi pedinatori; e quella per il far sentire fuori posto chi tenta di integrarsi, aggredendolo al livello microscopico delle timidezze culturali, degli abiti indossati, dei cibi gustati. Fino a trasformarne l’oppressione in mostri e demoni soprannaturali e feroci. Fino a dimostrare che la loro diversità era davvero pericolosa.

Se finora di episodi se ne contano quattro, è perché quello mancante funge da anello di congiunzione tra le due parti, segna il passaggio da una formula all’altra, integrando la Black Mirror di prima e quella di adesso. Posta a metà stagione, Beyond the Sea è la storia più lunga e forse ambiziosa. Ci si sposta nel passato – gli anni Sessanta – ma la tecnologia futuristica c’è ancora: è integrata nelle copie umanoidi di due astronauti che, per poter sopravvivere all’alienazione di una vita buia e solitaria nello spazio, possono trasferirsi con il pensiero sulla Terra e continuare a condurre le proprie esistenze familiari. Almeno finché, come l’indole sadica della serie vuole, la devianza umana non trasforma il progresso in una tragica involuzione.
Quel che a Black Mirror è sempre interessato davvero, infatti, non è mai stata la deriva spaventosa dell’evoluzione tecnologica. Il suo oggetto di osservazione sono stati fin dal principio le pulsioni, le emozioni, le paure, le ossessioni che da millenni ci accomunano tutti. Solo, da quando la realtà ha raggiunto (e forse superato) la lungimiranza della serie, Brooker non ha fatto altro che spostare lo sguardo, per mettere meglio a fuoco l’umano dietro la macchina. I racconti che ne sono usciti non sempre raggiungono la logica, la lucidicità e l’intensità angosciosa dei precedenti. Ma se prima ci si poteva illudere che l’obiettivo fosse procurare ansia sul futuro del mondo, adesso è ben chiaro a generare inquietudine è la scoperta di quanto la natura umana sia rimasta bloccata nel passato.
“Black Mirror 6” è disponibile su Netflix ed è composta da 5 episodi lunghi 42-80 minuti.
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