‘Sulla mia pelle’, Stefano Cucchi rivive nell’onestà intellettuale
Per alcuni tratti e con le dovute proporzioni, la storia della morte di Stefano Cucchi ricorda quella fittizia di Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Un omicidio disumano, l’inettitudine delle autorità e una figura femminile determinata a incanalare ogni molecola di rabbia – prima ancora che nella ricerca della verità – nello squarciare l’indifferenza dell’opinione pubblica. Per pretesa di giustizia, certo, ma anche per se stessa, per riscattare la durezza del passato e per ridare un nome e una dignità a chi, vittima della medesima brutalità, è stato invece cancellato dall’omertà.
Come la Mildred Hayes di Frances McDormand, Ilaria Cucchi si è messa in costante discussione, affidandosi alla sfacciataggine della provocazione. La forza disturbante dei suoi poster mostrati a favore di ogni possibile obiettivo, ha trattenuto la coscienza dei più dall’abitudine a voltarsi dall’altra parte. Così, ormai, la vicenda rievoca in automatico l’immagine sofferente e tumefatta del corpo del fratello. L’immagine, ovvero, che accompagna Sulla mia pelle in tutti i suoi 100 minuti di durata.
Solo, i lineamenti dolci e irregolari del geometra romano riprendono vita in quelli più duri e cesellati di uno scheletrico Alessandro Borghi.
La flebile e tremula parlata romanesca è invece spaventosamente simile. Lo si sente dall’audio della prima sommaria udienza che – incurante delle già precarie condizioni – confermò la detenzione del giovane e che accompagna i titoli di coda del film distribuito da Netflix.
Unico espediente emozionale, la cui esatta replica in corso di racconto è simbolo di una pellicola dall’impressionante onestà intellettuale.
Dell’intero caso di cronaca, la regia di Alessio Cremonini segue la parte di cui più si è parlato e che pur preserva maggiori zone d’ombra. I sette giorni di custodia cautelare, iniziati con una perquisizione culminata in violento abuso di potere e a cui Cucchi, lo sappiamo, non è sopravvissuto. In parallelo, i vani tentativi della famiglia nel cercare un contatto con le autorità.
Un tunnel di lenta agonia, che sullo schermo arriva grigio, scarno, silenzioso. La visione viene privata di qualsiasi vezzo retorico o voyeurismo, attenendosi alle uniche verità realmente contenute negli atti. Sulla mia pelle scansa così il proliferare di congetture sulle risposte che ancora mancano (il letale pestaggio, ad esempio, si oscura in qualche secondo di buio), lasciando a ciascuno la libertà di trarre le proprie conclusioni.
Con equilibrio attento e preciso, si cammina sul filo che separa la tentazione agiografica e l’istigazione al tono accusatorio. Stefano non è un santo, ha un passato di precedenti e dipendenze che si ripresentano costanti, affrontato con sguardo basso e parole di sfida a fior di labbra, anche nella più disperata richiesta di aiuto. Sul versante opposto, si sfila una rete di figure inclini a coglierla, ma umanamente deboli nell’andare davvero a fondo, delegando la responsabilità delle conseguenze.
Non c’è bene né male, non ci sono buoni né cattivi. Quel che si vede è nuda oggettività, la stessa rimasta immutata nella coraggiosa fermezza di Ilaria Cucchi. La stessa che consente a Sulla mia pelle di superare l’ostacolo più grande per questo tipo di racconti. Riuscire a non adagiarsi nel confondere la qualità della narrazione, delle immagini, delle interpretazioni, con l’intensa portata della storia che intendono raccontare.