Guardo o passo? ‘Zero’
Di serie tv italiane per adolescenti su Netflix ce ne sono ormai diverse. Nessuna però è come Zero. Cioè nessuna ha un cast formato quasi interamente da attori neri e un protagonista che all’occorrenza può trasformarsi in un supereroe. Del resto agli sceneggiatori italiani le idee originali non mancano. A fare la differenza è la loro capacità – quando arriva il momento di scriverle e svilupparle – di liberarsi da alcune abitudini grossolane che la serialità del nostro paese si trascina dietro da tempo. Finora questo difetto ha affossato quasi tutte le serie prodotte da Netflix Italia, tranne Suburra. Come sarà andata con Zero?
Zero: guardo o passo?
Piccola postilla prima di iniziare: questo articolo si basa su tutti gli 8 episodi della serie
Le cose da sapere: Si tratta della prima serie prodotta in Italia a coinvolgere italiani di seconda generazione in ogni fase produttiva. L’ideatore del progetto è Menotti (già sceneggiatore di Lo chiamavano Jeeg Robot), mentre la società che l’ha prodotto è Fabula Pictures (la stessa di Baby). L’idea di base è tratta dal libro Non ho mai avuto la mia età dello scrittore Antonio Dikele Distefano, che ha partecipato anche alla scrittura della serie insieme al produttore esecutivo Stefano Voltaggio, Massimo Vavassori (Alla scoperta dei Musei Vaticani), Carolina Cavalli (Mi hanno sputato nel milkshake) e Lisandro Monaco (7 vite). Gli episodi sono diretti invece da Paola Randi (Luna Nera), Ivan Silvestrini (Lontano da te), Margherita Ferri (Zen sul ghiaccio sottile) e Mohamed Hossameldin (Under Ground). Infine Mahmood ha curato la selezione musicale della serie e composto Zero, il brano prodotto da Dardust che fa da colonna sonora.
Dove vederla: Su Netflix.
Quanto dura: poco più di 3 ore (8 episodi da 21-27 minuti).
Il titolo: Il significato lo si coglie già nei primi episodi, ma per completezza di informazione specifichiamo. “Zero” è il numero della maglia da basket che indossa il protagonista, è il nome della sua versione fumettistica e anche il soprannome con cui i suoi nuovi amici decidono di chiamarlo. Ma soprattutto, “Zero” è la metafora del suo sentirsi invisibile, che lo porta inevitabilmente a passare inosservato agli occhi di chi lo circonda.
Il succo: È la storia di Omar (Giuseppe Dave Seke) un ragazzo nato in Italia da genitori immigrati, che vive in un quartiere della periferia di Milano chiamato Barrio. Omar è timido e ha la sensazione di essere così fuori posto da sentirsi invisibile; perciò lavora come rider per racimolare i soldi necessari a trasferirsi altrove, magari in un posto dove i fumetti che disegna possano aprirgli una carriera. Tuttavia Omar scopre che invisibile può diventarlo per davvero e che questo superpotere è la via per salvare il suo quartiere da chi vorrebbe distruggerlo. Facendosi trascinare controvoglia dagli eventi, Omar trova un nuovo gruppo di amici e forse anche l’amore, diventando piano piano sempre più visibile.
Serie simili: Trovarle è un po’ complicato. Per prederla molto, molto larga, si potrebbe dire che la premessa del supereroe emarginato e a disagio con i propri poteri ricorda serie come Misfits e I Am Not Okay with This. Il suo mondo diviso in buoni e cattivi (dove i cattivi non si percepiscono mai davvero come tali) fa pensare a Stranger Things. Il modo in cui si sviluppa somiglia però alle tipiche serie adolescenziali italiane, come Baby, Summertime o Curon.
Com’è? Semplice, estremamente semplice. Tanto che sembra quasi una serie rimasta alla prima fase di sviluppo, quella in cui si abbozza l’idea e si delinenano i personaggi, nell’attesa di completarli poi con una struttura più articolata di tratti e sfumature. La storia di Zero sta molto attenta a mettere i piedi nelle orme già tracciate del classico viaggio dell’eroe, non aggiunge altro, non complica le cose. Così gli episodi mantengono costante un ordine assoluto dove ogni personaggio resta incasellato nel suo archetipo e porta avanti il suo pezzetto di racconto.
Si tratta di una prudenza piuttosto penalizzante, per una serie che vorrebbe raccontare una parte di Italia che non è stata mai stata mostrata al mondo. Perché la struttura di base, lasciata così scarna, potrebbe essere collocata in qualsiasi posto del globo. Mancano cioè quei dettagli che parlano di come si vive da adolescenti figli di immigrati nel nostro paese, in un quartiere cosiderato sacrificabile dal rinnovo edilizio, in un limbo dove le tradizioni dei tuoi genitori ti sembrano quasi estranee, eppure non sei mai troppo integrato per vivere come gli altri tuoi coetanei.
Zero, insomma, galleggia un po’ sul superficiale, ed è proprio qui che si riconosce tutta la sua italianità. Ossia nell’assumersi pochi rischi, rinunciando ad approfondire i contrasti interni (e magari sgradevoli) a personaggi divisi a metà fin dalla nascita. Ossia nell’appiattire il tutto con una colata di frasi preconfezionate e assai innaturali (trovate anche un solo italiano reale che dica «Ehi, amico!»), e poi confezionarlo dentro a una cornice sonora che eleva il sentimento e anche gli ascolti su Spotify.
In questo senso, Zero è forse la serie più generalista che Netflix Italia abbia creato finora. Ma se si va oltre il ventaglio di fiction Rai e Mediaset che la memoria sventola al sentirlo, il termine “generalista” conserva ancora qualcosa di positivo. In una recente intervista il produttore Nicola De Angelis ha spiegato che Zero ha voluto essere una serie inclusiva prima di tutto per il pubblico. Perciò ha scelto una struttura fatta di episodi brevi, buoni sentimenti, cattivi che non fanno mai davvero paura, e soprattutto spiegazioni molto didascaliche di questioni che ci riguardano da vicino. (Più volte i personaggi si intrattengono in dialoghi che forniscono nozioni base su come funziona la gentrificazione, quanta corruzione c’è nell’edilizia, e cos’è una tangente.)
L’idea sembra quasi voler introdurre gli spettatori adolescenti ai meccanismi non sempre puliti del mondo adulto. Resta da capire quanto i ragazzi di oggi – cresciuti con Breaking Bad e abituati a Euphoria – abbiano bisogno di un pedagogismo così tanto esplicito per capire la realtà. Anche perché, quando concede ai suoi attori di emanciparsi dal doppiaggese e complica un po’ gli eventi (perché rendere visibile l’invisibilità del protagonista?), Zero funziona e sorprende di più.
Cose per cui tapparsi gli occhi: Nessuna. I momenti di potenziale (molto potenziale) violenza sono appena accennati e vengono smorzati da tagli tattici. Non ci sono neppure inquadrature particolarmente intime, eccetto una castissima scena di sesso.
Chi tenere d’occhio: La sorella del protagonista, Awa, perché la sua evoluzione è piccola ma incuriosisce in prospettiva di una seconda stagione. Inoltre Virginia Diop, che la interpreta, se la cava piuttosto bene. Poi c’è anche Momo, l’amico morbido e sornione che fa da collante del gruppo e che mantiene viva la componente comica della serie, grazie soprattutto alla buona naturalezza di Richard Dylan Magon.
La frase da segnarsi: «Il mondo ti guarda se tu lo guardi.» [Omar/Zero – Giuseppe Dave Seke]
Quindi? Zero è una serie che fa della semplicità e del pedagogismo il suo elemento distintivo, ma anche il suo limite. Prendendosi ben pochi rischi segue il tipico percorso del supereroe che, suo malgrado, si fa carico di un’avventura più grande di lui. Gli episodi però si seguono con fluidità e ogni tanto mostrano qualche sprazzo incoraggiante di pathos e naturalezza. Così non si arriva affaticati in fondo, dove le cose si fanno un po’ più stimolanti.
Dai un’occhiata a “Zero”"ZERO"
GUARDALA SE
- Hai tre ore libere
- Hai voglia di cose semplici
- Hai apprezzato "Summertime”
PASSALA SE
- Non vuoi perdere tempo
- Non sei un tipo da teen drama
- Apprezzi i supereroi più complessi
La cosa che più mi fa imbestialire è che, sulla carta, è davvero un progetto interessante, peccato che sia stato sviluppato senza un minimo di attenzione ed interessante.
Sorvoliamo sulla recitazione dei 5 protagonisti, alcuni non sono neanche attori, e possono sempre migliorare, l’impegno, almeno loro, ce lo hanno messo.
Ma, i dialoghi?! Agghiaccio puro praticamente sempre!
Il background dei personaggi?! Inesistente.
I pretesti per far partire i filoni principali delle storie?!
1) un estraneo mi entra in casa, ed io lo invito a cena; in più dopo una chiacchierata, sono già innamorata persa…ceeeerto, come no?!
2) Un tipo mi rincorre con una pistola; quando lo ri incontro in due minuti diventa il mio migliore amico…Certo certosino!
3) a Milano salta la corrente in un intero quartiere; la risposta in soldoni: “o paghi il pizzo, o aspetti DUE settimane”…Ma ovvvviameeente, mica fanno causa al comune, no nnno 😑
Ma come faccio a prendere sul serio una storia che ha dei pretesti così tanto inverosimili?! Non si parla di “una galassia lontana lontana”, ci sono i superpoteri, si, ma tecnicamente siamo in Italia, in un contesto verosimile.
In più, si parla tanto di periferia degradata … e dove sta?! Ci vivono solo Omar ed i suoi amici al Barrio? No perché io non ho visto altro, se non un minuto nell’ultima puntata, in cui son tutti felici e contenti … Se questo è il loro concetto di “periferia degradata”, voglio vivere nel loro mondo, giuro.
Davvero imbarazzante, spero possano migliorare nella prossima stagione, ma ho i miei dubbi.
Ecco, l'”imbestialire” di cui parli è forse il sentimento più comune tra gli spettatori (più giovani, soprattutto) che si imbattono nelle nuove produzioni di Netflix. Perché attorno a queste idee sempre molto originali si creano parecchie aspettative, oltre alla speranza di vedere finalmente raccontare la realtà italiana in maniera puntuale, reale, approfondita. Quello che le affossa si colloca ancora più a fondo della recitazione zoppicante o della scrittura appiattita: sta nella convinzione di partenza che stare sul semplice significhi abbozzare una storia in maniera approssimativa. E questo si percepisce come una grande presa in giro, purtroppo.