‘Young Sheldon’, regressione di un cult
“Spin-off”, “revival”, “reunion”, “reboot”. Il vocabolario del seriofilo ci si imbatte con cadenza ormai quotidiana. Pare infatti che più il mondo seriale si faccia prolifico, meno resista alla tentazione di guardare al passato. Così non trascorre giorno senza che qualche vecchia gloria televisiva (e non) si annunci pronta a tornare al piccolo schermo o ad ampliare il proprio universo narrativo. In parte per nostalgia, certo. Altre volte per rimediare a un finale deludente (ne è l’esempio Una mamma per amica). O ancora, perché l’attuale Golden Age della tv sembra occasione propizia per restituire qualità a molti titoli tramontati con troppa velocità (dice niente Twin Peaks?).
Eppure, al giungere di ogni nuova notizia, un brivido sale lungo la schiena. E non per gioia, sia chiaro. Ma perché qualsiasi progetto di tal genere è un’arma a doppio taglio. Può riuscire a mantenere i buoni propositi e godere già in partenza di grande attenzione. Ma finisce più spesso con il concludersi in un nulla di fatto, rovinando addirittura sul buon ricordo della serie originale.
In questo secondo intento è riuscito con successo Young Sheldon, lo spin-off di The Big Bang Theory. Meglio parlare di prequel, però. Il nastro si riavvolge infatti al 1989, spostando l’ambientazione in un Texas orientale tutto football e preghiera, per raccontare l’infanzia del cervellotico scienziato Sheldon Cooper. A far da ponte tra le due serie, la voce narrante di Jim Parsons – qui in veste di co-produttore – che nel corso degli anni ha contribuito a plasmare con i suoi vezzi uno dei personaggi più iconici in assoluto.
Per il resto, Young Sheldon ha preferito distaccarsi dall’originale, tanto nella forma quanto nei contenuti. Non solo volti inediti, ma anche una trasformazione in single-camera sitcom, meno statica e teatrale, e soprattutto priva del tradizionale sottofondo di risate. Anche perché qui la vita di Sheldon assume un gusto dolceamaro.
I creatori Chuck Lorre e Steven Molaro avevano preannunciato una comedy in stile Malcom (il cult di inizio millennio, concentrato di cinismo e disfunzionalità familiare). Il risultato è invece decisamente più insipido.
Young Sheldon vorrebbe portare sul teleschermo tutta l’assurdità quotidiana del confronto tra un piccolo genio di 9 anni e la realtà adulta che lo circonda, tra lo sbarco precoce al liceo e una famiglia che deve ancora imparare a rapportarcisi. Ad ogni modo, né la componente comica né tantomeno quella drammatica riescono a emergere con la dovuta forza.
Il risvolto più amaro del possedere una personalità tanto singolare – soltanto accennato in The Big Bang Theory – avrebbe potuto trovare qui terreno fertile per esplorare il bagaglio di vita di Sheldon. Invece a dare vera profondità all’effetto nostalgico è soltanto il personaggio di sua madre Mary, divisa tra l’istinto di protezione per un figlio diverso e le difficoltà comunicative del resto della famiglia (soprattutto del marito George, un Homer Simpson in carne e ossa).
A ciò non è in grado di rimediare neppure l’elemento comico, da sempre fiore all’occhiello di The Big Bang Theory per la sua acutezza, e al contrario qui fiacco e fin troppo scontato. Perché mai, insomma, si dovrebbe ridere per un “testicoli” sussurrato in chiesa e un “accenno di baffi” fatto notare alla professoressa? Piuttosto, a farsi carico del black humor della serie è Missy, gemella di Sheldon, sarcastica e seccata da un fratello che sospetta essere stato adottato.
La crepa più profonda, comunque, riguarda proprio il piccolo Sheldon (interpretato dal talentuoso Iain Armitage di Big Little Lies). Se è vero che il protagonista di The Big Bang Theory concentra in sé i tratti più apprezzati dei migliori personaggi comedy, tale perfezione perde vigore con il suo ritorno all’infanzia.
Robotico ma impulsivo, lo Sheldon adulto fa ridere per il suo spiccato infantilismo, per una saccenza teorica che quasi mai trova ragione nei fatti, e specialmente per la convinzione di essere cool, puntualmente smentita dalla sua inattitudine relazionale. Tutte contraddizioni che, una volta proiettate sulla sua versione più giovane, si fanno infastidenti anziché spassose. Non c’è nulla di divertente, insomma, nell’osservare un bambino atteggiarsi da adulto e vederne confermate le presunzioni.
Con il riavvolgersi del nastro e il regredire dell’età di Sheldon, anche la qualità di scrittura fa diversi passi indietro. Dal risultato – che per intenti potrebbe ricordare Atypical la serie sulla quotidianità tragicomica di un ragazzo autistico e della sua famiglia – emerge così forte e chiaro il reale compito di Young Sheldon: sfruttare per qualche altro anno la scia di successo di The Big Bang Theory, ormai in dirittura di arrivo ma pur sempre show preferito dai telespettatori statunitensi.
In questo caso, però, sarebbe stato più apprezzabile seguire l’esempio di Will & Grace. Non alimentare grandi aspettative, ma mantenere semplicemente intatto ogni preziosismo rimpianto dai nostalgici. Oppure, lasciare spazio a idee più fresche.