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‘Will & Grace’, la forza del rimanere fedeli a sé stessi

Si dice che tra le chiavi necessarie ad aprire le porte del successo non si possa prescindere dalla volontà di evolversi, rischiare, uscire senza remore dalla propria zona di comfort. Eppure, il più grande cambiamento sembra talvolta annidarsi proprio nella capacità di rimanere fedeli a sé stessi. Un paradosso bello e buono, a rifletterci neanche troppo, ma tutt’altro che astratto. Lo dimostra il caso di Will & Grace, che di ritorno sui teleschermi dopo undici anni di assenza, è riuscita a (re)inserirsi con disinvoltura tra le novità più apprezzate di un contesto seriale nel frattempo fortemente mutato.

Come? Ritrovando ogni briciolo della propria identità e spingendosi, nel ricercarla, ben oltre il nostalgico finale del 2006.

Cancellata con un colpo di spugna l’immagine dei suoi quattro protagonisti – ormai ingrigiti e un poco disillusi dal passare del tempo – all’imbocco di strade diverse, il revival della celebre sitcom ha avuto la sfacciataggine di dimenticare la chiusura della stagione di addio, ricorrendo all’espediente in apparenza più banale.

Un brutto sogno di Karen, poche battute di Will (“Sei ricca, Stan è vivo, entrambi single, niente figli”), un “Got it?” (“Ci siete?”) ammiccato in camera da Jack, ed ecco serviti tanto un riepilogo esauriente quanto il ritorno all’esatta premessa di partenza: un gruppo di adulti mai cresciuti, dalle vite sentimentali e professionali sconclusionate, in continuo bilico tra l’egoismo più acerbo e un’amicizia viscerale quale unico punto di riferimento.
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Dalla cinica indulgenza dell’avvocato gay Will alle nevrosi sentimentali dell’arredatrice d’interni etero Grace (di nuovo coinquilini dopo i rispettivi divorzi), dall’eccentricità caricaturale dell’aspirante showman Jack alla malvagità alcolica della socialite Karen, tutto, insomma, sembra essersi mantenuto intatto. O quasi.

Gli storici creatori Max Mutchnick e David Kohan non hanno infatti finto di ignorare il peso degli anni trascorsi, sfruttandolo piuttosto come innesco di una comicità intelligente, basata sull’incontro (e scontro) dei suoi protagonisti ultraquarantenni con la cultura pop e le nuove generazioni. Ecco così che, mentre Grace tenta di risvegliarsi dal torpore sessuale e Karen si abbandona a qualche guizzo di istinto materno, Jack si affida allo “Scrotox” (“È botox ma per i maschietti!”) e Will scopre che frequentare un millennial implica divergere sull’iconicità – un tempo indiscutibile – di Madonna.

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Un vortice di situazioni che tra le risate riflette con molta più determinazione sulle falle della società attuale, senza risparmiare nessuno, nemmeno Harvey Weinstein.

Il reale elemento di svolta rispetto al passato, dunque, è un impegno sociale e politico decisamente meno velato. In effetti, lo si intuiva già dal breve webisodio pro Hillary Clinton rilasciato ormai un anno fa, che ha gettato le basi per la nuova stagione. Se tuttavia la prima puntata – ambientata alla Casa Bianca, dove Grace deve ridecorare lo Studio Ovale e Will ha un affaire con un membro del Congresso – risulta forzatamente politicizzata, negli episodi successivi il racconto si assesta, ironizzando su ogni singola contraddizione trumpiana, pur senza mai nominare Trump.

Essenziale, in fondo, per una comedy pioniera nella promozione elegante e brillante dei diritti LGBT sul piccolo schermo, che ritrova la sua migliore espressione specialmente nel quarto episodio, riprendendo vecchi schemi per poi amplificarne la risonanza.

Nonno Jack (appena trasmesso da Premium Joi), torna sulla libertà di esprimere il proprio orientamento sessuale, affrontata nella seconda stagione in Ragazze a metà. Questa volta, però, al posto del club “Bentornato Uomo” troviamo il “Camp Straighten Arrow”  – uno dei campi correttivi sponsorizzati dal vicepresidente americano Mike Pence. Qui la cura per l’omosessualità è a base di canti e preghiere, accantonando calcio e lezioni di trucco. E i modelli viventi di riconversione sono diabolicamente interpretati dalle icone gay Jane Lynch e Andrew Rannells, subentrate a Neil Patrick Harris. Ma soprattutto, ci si affida ora all’innocenza infantile di Skip, nipote di Jack, per rimarcare l’ipocrisia di un mondo che si proclama emancipato, pur arrogandosi il diritto di “riparare” quel che ritiene “innaturale”.

Episodio simbolico, questo, che racchiude tutta l’essenza del ritorno di Will & Grace: schietta e attuale, sì, ma instancabilmente fedele a sé stessa. D’altronde, chi mai avrebbe osato immaginarla trasformata?

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