‘Unorthodox’ è capitata al momento giusto
Esty ha 19 anni e a sapere da dove viene si rimane un attimo spiazzati. New York. Come Carrie Bradshaw, collezionatrice di Manolo Blahnik; Hannah Horvath, indossatrice disinvolta di calzoncini troppo stretti; Ilana e Abbi, professioniste dell’imbarazzo sentimentale; e Nadia Vulvokov, che dell’uso del pettine se ne frega. Esty non appartiene all’ideale femminile newyorkese che nell’ultimo ventennio se n’è andato a spasso per la tv. Esty in America sembra fuori posto: sopra le maglie a collo alto indossa camicette dalle stampe vetuste, porta gonne che si afflosciano fino al polpaccio sui collant color carne, e cammina gobba su mocassini che la elevano di pochi millimetri. E siccome nei quattro episodi di Unorthodox capita spesso che qualcuno la scruti sconcertato, Esty precisa che viene da Williamsburg, e “Williamsburg non è l’America”.
Per fare un passo indietro, Esther “Esty” Shapiro è la protagonista di Unorthodox. Ossia – in caso foste marziani o steste passando la quarantena in uno scantinato buio senza apparecchi dotati di schermo – una miniserie tedesco-americana che Netflix ha rilasciato a fine marzo, convincendo probabilmente diversi quarantenati in difficoltà economica a rinunciare alla carta igienica, piuttosto che al loro abbonamento streaming.
Williamsburg invece è un quartiere di Brooklyn che ospita una delle più grandi comunità ebree ultraortodosse del mondo. Gli uomini si riconoscono per il paio di boccoli che cade lungo il viso; le donne per i capelli nascosti da parrucche che sembrano prodotte in serie. Esty è una di loro. O meglio, si è sforzata di essere come loro. Perché se tua madre è scappata, tuo padre è un ubriacone e possiedi sufficiente prontezza di risposta, è come se restassi sempre macchiata, non importa quanto sporco immaginario debba grattarti via da sotto le unghie prima indossare l’abito bianco del tuo matrimonio combinato. Mettici anche il vaginismo che ti impedisce di far figli, poi, ed ecco fornito a tua suocera l’alibi per gridare all’inganno e invocare il divorzio.
Così, quando capisce che gli sforzi fatti le stanno strappando via la dignità, Esty decide di infilarsi qualche soldo nell’elastico della gonna e fuggire a Berlino. Unorthodox però non segue la sua fuga. Bensì intreccia i flashback di quanto accaduto prima ai suoi tentativi di sopravvivere lontano da casa senza farsi rintracciare.
Unorthodox infatti è un dramma, ma anche una specie di thriller. Il primo s’ispira all’autobiografia che la scrittrice Deborah Feldman pubblicò nel 2012; il secondo è stato costruito dalle creatrici Anna Winger (la stessa di Deutschland 83) e Alexa Karolinski, insieme alla regista Maria Schrader, per renderlo più appetibile per la serialità odierna. Perciò non c’è solo Esty in cerca della sua strada, con l’aiuto di alcuni coetanei che studiano al conservatorio. C’è anche Yanky (Amit Rahav), il marito mammone e insicuro che vuole riportarla a casa; e c’è Moishe (Jeff Wilbusch), un giovane appena riammesso nella comunità, che trovando Esty potrebbe veder perdonate le dissolutezze del passato.
Dando a ogni personaggio un motivo per fuggire o inseguire, Unorthodox avvince abbastanza. Se avete la malaugurata idea – esperienza personale – di darle un’occhiata a mezzanotte inoltrata, c’è un’alta probabilità che all’alba siate ancora lì senza segni di palpebra calante.
Il suo merito più grande, dicono i recensori di questo tempo in cui qualsiasi serie viene decantata come capolavoro, è il racconto intenso e struggente della storia di rinascita di Esty. Ma la spiegazione più onesta è che Unorthodox ha avuto la fortuna di capitare nel momento giusto.
Questa miniserie – la prima di Netflix in lingua yiddish, che confluisce nell’inglese e nel tedesco – è un po’ come Chernobyl. È bella e dolorosa, ed è stata incensata più del dovuto per l’innesco di due meccanismi: il senso di colpa e il parallelismo con il presente.
Unorthodox ha diversi ingranaggi allentati. Ad esempio, non spiega com’è che tanti giovani ebrei stiano scegliendo di tornare a vivere in Germania, nonostante l’Olocausto abbia smembrato le loro famiglie e nutra l’integralismo in cui sono cresciuti. (Che si tratta di un fenomeno reale e centrale nel racconto lo si scopre solo dopo, nel mini-documentario Unorthodox: dietro le quinte). E il ritratto di Berlino, culla fin troppo gioviale del multiculturalismo e dell’accoglienza, scioglie molti nodi di pathos nella parte di racconto al presente.
C’è una cosa però che Unorthodox fa molto bene. Ed è la stessa che in questo momento di reclusione, amplificatore di emozioni minime, ne ingigantisce il valore. Unorthodox assegna a tutti i personaggi una storia; e quella storia è la ragione del posto, della comunità, che ciascuno di loro si è scelto – o vuole scegliersi – nel mondo.
Cosicché, nella riscoperta dell’empatia alimentata dalla pandemia, ci si sente in colpa per averli giudicati troppo in fretta; e si finisce per intenerirsi un po’ per tutti. Per Moishe, addirittura, che infido e manipolatore (“C’è sempre un Moishe” dice la madre di Esty) lo è solo per sopravvivenza. Williamsburg infatti è protezione dalle debolezze: fuori da lì, Moishe è sperso tanto quanto Esty. Tant’è che nel minacciarla, dicendole che lontano dalla comunità ultraortodossa, senza soldi né qualifiche, la sua identità è nulla e sopravvivere è impossibile, sembra quasi voglia convincere più se stesso.
Il carico più pesante di empatia, comunque, lo smuove Esty. Soprattutto, per la bravura dell’attrice israeliana Shira Haas, che le presta la figura gracile e i lineamenti consumati. Grazie a lei, Unorthodox funziona a gesti ed espressioni, più che a parole.
Per 19 anni Esty ha vissuto fuori dal mondo: non sa cosa sia Google e il suo YouTube è una consulente che squittisce consigli di sesso molto pragmatici. Con solidità, Haas riesce a far percepire il peso dei sentimenti che Esty si porta dentro, e che prova a sfogare pian piano per riacquisire libertà e fierezza. Un abbraccio di slancio a chi l’ha aiutata a fuggire, un caffè americano, un urlo, un paio di jeans, un rossetto portafortuna, la testa rasata che – scopre – nelle discoteche tedesche è cool. Sono le cose piccole ad abbattere la sua prigione mentale (“Le regole sono immaginarie. Il loro potere è nella tua testa” le dice l’insegnante di pianoforte da cui le sarebbe vietato prendere lezioni). Proprio come sono le cose piccole ad ammorbidire le pareti soffocanti della nostra quarantena.
C’è una scena, nel primo episodio della serie, in cui Esty – pur con facilità irreale – si aggrega per una gita al lago al gruppo di musicisti che ha appena conosciuto. C’è il sole e attorno a lei ci sono solo giovani in costume, compresi gli uomini davanti ai quali le sarebbe vietato scoprirsi e nuotare. Seguendo il fruscio calmante dell’acqua, Esty si avvia verso la riva e ancora vestita inizia a immergersi; poi si sfila la parrucca e sprofonda completamente. A guardarla, sembra quasi di galleggiare con lei sul pelo dell’acqua; di inspirare la stessa aria calda, per la prima volta senza affanno dopo un tempo indefinito di reclusione. È liberatorio. Ed è il motivo per cui Unorthodox è capitata nel momento giusto.
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