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Perché guardiamo “The Last of Us”, anche se fa male

La prima stagione di The Last of Us si chiude con una bugia.

Dopo un viaggio quasi letale attraverso città statunitensi divorate da una feroce pandemia, il protagonista Joel (Pedro Pascal) ha ormai raggiunto il suo obiettivo: consegnare l’adolescente Ellie (Bella Ramsey) a quel che rimane di un ospedale di Salt Lake City. Lei, infatti, chissà come non si infetta, e il suo corpo è probabilmente la chiave per formulare un vaccino atteso da vent’anni. La procedura, scopre però Joel, potrebbe ucciderla. Così, tra il salvare l’umanità e il tenere per sé l’unica cosa che gli abbia ridato vita dopo aver perso una figlia, sceglie la seconda. Uccisi uno, tre, dieci, venti soldati, Joel la raggiunge, elimina il chirurgo che l’ha già addormentata e la porta via al sicuro. Quando Ellie, ripresasi, gli chiede cosa sia successo, Joel le dice che il vaccino era cosa impossibile da fare. Lei lo scruta e gli dice «Ok». Sa che non è vero. Poi buio.

Il modo in cui The Last of Us dà forma al tutto appartiene poco alla tv di oggi. Non è un finale lungo, epico, rumoroso. Per 43 minuti (è l’episodio più compatto di tutta la stagione) una musica romantica sovrasta suoni e parole, anche quando si entra nel cuore dell’azione. L’avanzare di Joel e il suo uccidere ripetuto sono gesti meccanici, va fatto quel che bisogna fare per sé, e l’egoismo è tutt’altro che eroico. Figurarsi, quindi, quando ci si rende conto di esserne stati i complici.

Anche chi non ha mai messo mano al videogioco da cui The Last of Us è tratta – ma come la sottoscritta s’è affannato a vederne i video su YouTube – sa che la versione televisiva è la copia pressoché fedele di quella giocata. Una scelta che i creatori Craig Mazin e Neil Druckmann (anche co-ideatore del videogioco) hanno rispettato dai dettagli più grandi fino ai minimi particolari. Sembra la via più facile per non far arrabbiare pubblico e idolatranti giocatori, ma in realtà è tutto il contrario. The Last of Us non si limita a replicare, raccontare, mostrare la sua storia. Come ha osservato James Poniewozik sul New York Times, per ampi tratti la serie «mette il controller, metaforicamente, nelle mani dello spettatore». Per questo è diversa dagli altri adattamenti di videogiochi basati solo sull’azione pomposa. Per questo non si riesce a lasciarla, anche se vederla fa male.

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HBO

Una volta che si ha la risposta in tasca, è facile accorgersi che The Last of Us ci aveva avvisati fin da subito. E che il finale ha soltanto chiuso un cerchio stilistico che riporta all’episodio iniziale. Dopo l’apertura nello studio di un futuristico di talk show degli anni Sessanta, intento a schernire uno scienziato che profetizza una catastrofica infezione di massa causata da un fungo parassita, si salta in avanti di alcuni decenni, dove la catastrofe prende vita. Siamo nel 2003, il riscaldamento globale avanza e i colori pastello durano poco: il fungo si diffonde, striscia fino al cervello degli infettati e si impossessa dei loro movimenti, trasformandoli in specie di zombie schizofrenici e feroci.

Mentre le strade si intasano e gli aerei cadono, ci si infila così in macchina di Joel, un costruttore texano che per salvare la figlia si mostra disposto a tutto, anche ignorare la richiesta di aiuto di una coppia con un neonato. Il tentativo è vano, però, e vent’anni esatti dopo lo si ritrova ingrigito e apatico in un mondo cambiato, dove lavori sporchi e traffici loschi gli assicurano indipendenza da una lotta tra un regime militare e gruppi di ribelli altrettanto autoritari. Anche il compito di portare Ellie fuori da Boston e consegnarla all’altro capo degli Stati Uniti è per Joel una mera transazione di beni. Ma lei è tosta, ama le barzellette, smorza la sofferenza con un’ironia intelligente. E soprattutto, ha bisogno di un genitore che le spieghi il mondo e la protegga non solo in quanto corpo miracoloso da studiare.

Ogni episodio di The Last of Us è un livello, un capitolo che porta Joel e Ellie in un posto diverso, incontrando mostri, persone e insidie di varia natura. Nell’affrontare ciascuna tappa, ci si muove in scene di azione turpe e maestosa, condividendo il controller con l’uno e poi con l’altro personaggio, chiamati a offrirsi reciproca protezione e restituirsi a vicenda un valore umano. Con una bravura di pochi, Pascal e Ramsey rendono tangibile un’intesa che man mano si stratifica. Le loro interazioni sono fatte di un testo e un sottotesto, delle bugie che si raccontano e delle verità che non si dicono – o che hanno bisogno di non dirsi, non a parole, almeno. Sono infallibili, ma non se ne rendono conto: agiscono in reazione a una paura sempre più viscerale di perdersi l’un l’altro.

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HBO

The Last of Us ha infatti colto quel che gran parte degli altri adattamenti videoludici non aveva finora mai capito. I videogiochi sono uno dei più potenti mezzi di espressione e sfogo delle emozioni umane. E quello che si desidera dalle repliche su schermo dei loro mondi virtuali non è tanto assistere a lotte, incursioni, salvataggi spettacolari. Il punto è condividere la visuale e i movimenti dei personaggi, per provarli in prima persona.

Una serie tv, però, ha meno bisogno di tenere costantemente attivo lo spettatore. Perciò, una parte consistente dello spazio che il videogioco occupa con l’azione, Mazin e Druckmann hanno preferito utilizzarla per staccarsi da Joel e Ellie ed esplorare con uno sguardo esterno le diverse forme dell’umanità attorno a loro. In varia misura, tutti gli episodi si prendono del tempo per introdurre personaggi di passaggio, ampliandone le storie. Ed è qui che The Last of Us assume le sembianze della vera televisione.

A ritagliarsi lo spazio maggiore sono Frank e Bill. Uno è un survivalista di mezza età che ha passato la vita a costruire difese, l’altro un estraneo giunto dal nulla a fargliele abbassare. La loro storia d’amore sono 75 minuti a sé stanti che mettono in pausa la trama principale, come le sceneggiature di un tempo, libere dalla frenesia del binge watching, si dilettavano a fare (guai a chiamarlo episodio bottiglia, però). Ma lungo il percorso s’incontra anche Henry, un giovane in fuga dopo aver tradito i ribelli in cambio di medicine per il fratello Sam, un bambino sordo e malato. E poi c’è Kathleen, che per quel tradimento ha perso il proprio, di fratello, e accecata dalla vendetta non si fida più di nessuno. O ancora David, un predicatore la cui spiritualità carismatica nasconde istinti truci.

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HBO

Con vari gradi di crudeltà e diverse dimensioni di scrittura televisiva,The Last of Us dipinge un mondo dove le persone fanno quel che devono per sopravvivere. Nessuno tuttavia si percepisce come davvero cattivo: ognuno possiede una o più sfumature di umanità. Rispetto al videogioco, la serie ha infatti aggiunto o cambiato alcuni elementi narrativi e visivi (in alcuni casi minuzie prostetiche, addirittura) per amplificare il fattore sentimentale di ciascuna storia. Tutti i personaggi si confrontano con la tragicità del dover compiere scelte egoistiche, sapendo che avranno conseguenze brutali per gli altri. Al punto che il contagio, la morte, diventa quasi un sollievo per sé e per chi guarda.

D’altronde, quando Craig Mazin presentò il suo progetto a HBO, lo definì «una storia d’amore su come l’amore faccia fare alle persone cose terribili». E se si considera il periodo in cui questa storia si colloca, si comprende perché le sue implicazioni siano ancora più angosciose da affrontare e digerire. Per il videogioco, uscito dieci anni fa, il 2023 era un futuro postapocalittico. Per la serie è invece un presente che gli eventi pandemici e bellici hanno reso tutt’altro che parallelo.

Pare allora alquanto strano che The Last of Us abbia alimentato il desiderio forte, condiviso e raro, per quest’epoca televisiva, di tornare nel suo mondo ogni settimana. Ma se si osserva bene, lì dentro c’è anche un certo grado di conforto. Una volta che l’angoscia è sufficientemente densa, la serie rimette sempre il controller (e il controllo) nelle mani di Joel e Ellie, e dello spettatore. Il senso di passavità svanisce. E subentra la sensazione calmante che ci sia sempre qualcuno pronto ad assicurarti che andrà tutto bene. Anche se sai che è una bugia.

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