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La rabbia catartica di ‘The Good Fight’

C’è una scena, nel primo episodio della terza stagione di The Good Fight, in cui Diane Lockhart (Christine Baranski) discute con un livido che ha voce e sembianze di Donald Trump. Lui ne canzona il marito – al servizio del governo e portatore del livido – per essersi fatto silenziosamente impallinare da Eric and Donald Trump Jr prima di un safari per sadici annoiati a caccia di innocue giraffe. Lei declina però la provocazione, assentandosi in un monologo rabbioso sulla deriva del genere maschile.

“Cos’è successo agli uomini?” si chiede sottovoce. “Dove sono finiti quelli veri? Perché ora abbiamo queste creaturine maliziose con i capelli impomatati e acqua di colonia? Cos’è successo a Paul Newman e Burt Lancaster? Cos’è successo agli uomini che non si arrabbiavano facilmente, responsabili, e che non piangevano come femminucce? Quando Trump e Kavanaugh sono diventati la nostra idea di uomo afflitto? Con le labbra tremule, che incolpano tutti tranne se stessi?”

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L’insonnia di Diane è il nuovo di disturbo di questi tempi di caos assoluto. Il classico rimuginare esistenziale è passato di moda, ora ci si angoscia per l’idolatria generale della non competenza, il dopo Brexit, il VinciSalvini. Cosicché chiunque possieda anche solo un decimo della sua anima di avvocato liberal con foto di Hillary Clinton fissa sulla scrivania, dal tormentarsi di Diane si sente capito. La lieve differenza, tuttavia, è che non chiunque possiede lo stesso metodo di reazione.

Diane, che dopo quel ceffone ben assestato alla deludente Alicia Florrick sognava di ritirarsi tra i vigneti francesi, viene richiamata alla battaglia da uno scandalo finanziario e dall’esito inatteso della corsa alla Casa Bianca. E, trascorse le prime due stagioni dello spin-off di The Good Wife a rimettersi in sesto in uno studio legale afroamericano di una Chicago temporalesca e a farsi allucinare da un mondo che non sa più dove stia la verità, decide ora di agire. Nel culmine della sua notte in bianco trova perciò lo slancio per inseguire la via dell’impeachment e scoraggiare il consenso dell’elettorato cattolico. Anche a costo di rompere il segreto professionale, anche a costo di unirsi a un gruppo segreto di resistenza dai metodi non proprio legali.

“Saresti davvero così stronza?” incalza allora il Trump-livido. “Ho imparato dal migliore” è la risposta decisa.

The Good Fight - recensione serie tv-Christine Baranski
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Il che – senza soffermarsi sulla brillantezza della trovata narrativa – è l’esatto indicatore di quanto The Good Fight sia serie catartica e pure un poco frustrante. Per ogni sfogo impetuoso di rabbia (a partire dall’esplosività appagante della sigla, che si lascia guardare sempre tutta a qualsiasi minuto di episodio spunti), pone la questione su quanto il fine di combattere l’ingiustizia giustifichi il ricorso ai suoi stessi mezzi. Ad esempio, truccare le elezioni del 2020, ma stavolta a proprio favore.

Nel farlo, il racconto prosegue in quel che dagli esordi della serie madre (se non l’avete mai vista, c’è una guida per recuperarla con pochi sforzi) gli riesce meglio: non reinterpretare la realtà, bensì analizzarla con lucida e funesta ironia così com’è, mettendole al servizio una squadra di personaggi – e rispettivi ideali – accattivanti fino all’ultimo dei giudici.

The Good Fight, però, è ancora più furiosa e si nasconde ancora meno di The Good Wife. I suoi avvocati battagliano sulle contraddizioni del #MeToo, dei gilet gialli (che qui sono rossi), del neonazismo; si dannano per i segreti insabbiati sotto gli accordi di riservatezza e per il doppiogiochismo dei grandi colossi del web.

Perfezionando un’attitudine ormai nota (e in passato talvolta fallimentare) per la narrazione sperimentale, ogni puntata si concede poi un minuto per riavvolgere il nastro di ciascun tema con una serie di corti animati musicali – I corti di “The Good Fight” – che dovrebbero espandere il loro valore informativo (sui troll russi, sull’immigrata Melania Trump, su come un meme può distorcere il reale) ben oltre i confini dello streaming a pagamento.

Quando non censurati, ovviamente. Perché – ironia della sorte – il corto dell’episodio otto, sull’autocensura di alcuni grandi media americani ai propri contenuti per poter accedere al mercato cinese, si è visto oscurare dalla stessa CBS (quel che conteneva lo ha descritto l’autore e cantante Jonathan Coulton al New Yorker).

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Questo non è infatti soltanto uno show anti-Trump. Questo è uno show che mette in gioco tutta la difficoltà attuale di mantenersi coerenti tra ideali e realtà. L’unico a riuscire brillantemente là dove altre storie di fantapolitica (da Scandal a House of Cards) hanno dovuto soccombere con l’avverarsi delle loro assurdità. Sorpresi dal corso degli eventi del 2016, i coniugi-sceneggiatori Robert e Michelle King sono stati costretti a rivedere le proprie trame in corso d’opera. E per fortuna. Perché avesse trionfato Hillary Clinton, quel personaggio integro e autorevole, ma spesso umoristicamente vacillante, che è Diane Lockhart avrebbe avuto ulcere meno brucianti e una determinazione meno comprensibile nel guerreggiare. Come The Good Fight, del resto, non sarebbe stata tanto catartica, tanto puntuale nell’interpretare il sentimento di rabbia, impotenza e confusione di questo tempo.

Unica valida ragione, insomma, per la quale tocca ringraziare Donald Trump.

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