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“The Bear” mette un’ansia confortevole

C’è stato un tempo (forse poco più di un decennio) in cui le cucine televisive erano l’habitat degli aspiranti cuochi dalla volontà ferrea, dotati di polsi ben allenati ad affrontare gare di montaggio di maionese, un sadismo necessario a sezionare animali – anche vivi – e un masochismo utile ad assistere in silenzio al lancio delle proprie creazioni culinarie da parte di chef boriosi. Poi però la suscettibilità si è impossessata del mondo (quello occidentale, almeno), e per non offendere nessuno le cucine televisive hanno aperto le porte alla vulnerabilità esibita, costringendo gli chef ad ammorbidire la propria immagine, se necessario cucinando pasta al tonno su canali YouTube fintamente amatoriali.

Di questo passaggio è figlia The Bear, la serie tv che nei mesi estivi ha deliziato e divorato gli spettatori americani, mostrando loro la realtà ansiogena di chi cucina per mestiere. Un angolo di televisione tragico e comico, dove i cuochi sudano, boccheggiano, sfregano pavimenti sulle ginocchia, e ogni tanto piangono. Di nascosto, però. Perché il loro raro pregio è che l’essere vulnerabili non è un furbo espediente da ostentare, bensì un groviglio di emozioni da affannarsi a coprire.

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L’affanno più grande è percettibilmente quello di Carmen Berzatto – “Carmy”, per farla più breve – il miglior chef di un innominato miglior ristorante del mondo in quel di New York, che ha appena lasciato per fare ritorno a Chicago. Lì la sua famiglia gestisce l’Original Beef of Chicagoland – “The Beef” per gli affezionati – un locale di cui capire l’identità potrebbe risultare ostico ai forestieri. Un sandwich shop per definizione, nel concreto il Beef non è del tutto un ristorante e nemmeno una gastronomia, né tantomeno un fast food. L’unica cosa ben chiara è che nella sua modesta cucina si preparano panini molto calorici farciti con carne di manzo italiano, destinati a riempire gli stomaci degli operai che ogni giorno s’incolonnano fuori dalle sue grandi e sporche vetrate.

Dal Beef, Carmy (a cui Jeremy Allen White dà vita con una maniacalità affettuosa) si era allontanato nella convinzione di dimostrare, prima di tutto a sé stesso, di poter valere quanto il fratello maggiore Michael (Jon Bernthal), ben più estroverso e sicuro di lui. A farlo tornare è invece il soffocante senso di colpa per non aver visto, assuefatto dall’ammirazione, le disfunzioni mentali che hanno portato Michael al suicidio. Per perdonarsi (o punirsi) Carmy decide così di assumere la problematica gestione del Beef e provare a salvarlo dal fallimento. Non tutti i debiti sono però sanabili vendendo qualche pregiato giubbotto di jeans e racimolando monete dalla sala giochi del locale. Per pagare quelli a più zeri, reclamati dal mafioseggiante zio Cicero (Oliver Platt), occorre prima riorganizzare l’intera attività.

Gli ambienti sporchi e caotici del Beef sono infatti il riflesso dei personaggi che lo popolano. Nel mezzo di un viavai di figure singolari, c’è una brigata scoordinata di cuochi divenuti tali non certo per passione. A spiccare su tutti è Richie (Ebon Moss-Bachrach, di una bravura inebriante), un tuttofare che con arroganza spavalda, unghie sudicie e occhi sofferenti ha rilevato il ruolo di Michael. Presente in tutti i ricordi di famiglia dei Berzatto, Richie ha acquisito l’epiteto di «cugino» e una gestualità molto italoamericana, benché di italo non abbia nemmeno un antenato. Tutt’attorno, in ordine sparso, ci sono poi anche Marcus (Lionel Boyce), che sforna sfilatini con serafica lentezza; Tina (Liza Colón-Zayas), una ruvida cuoca di mezza età, la cui bellicosità parla soltanto spagnolo; Ebraheim (Edwin Lee Gibson) un sorridente immigrato veterano della cucina, per il quale è sempre un buon momento per raccontare aneddoti di guerra.

Jeremy Allen White Ebon Moss-Bachrach
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Benché abituato alla disciplina di un ristorante dove per fare un dessert ci vogliono quattro diversi tipi di prugne, dodici persone e altrettanti mesi di perfezionamento, Carmy non si concede la severità narcisistica a cui le cucine televisive hanno abituato. Eppure, l’impatto con la sua nuova brigata è tutt’altro che positivo. A seguirlo c’è quasi solo Sydney (Ayo Edebiri), una giovane chef dall’ottimo curriculum, arrivata proprio per lavorare con lui e dare concretezza alle proprie ambizioni. Per il resto, il blu uniforme dei grembiuli, l’idea di chiamarsi “Chef” a vicenda in segno di paritario rispetto, e la ripartizione ordinata dei ruoli non sembrano sciogliere lo scetticismo di una parte di brigata che si chiede perché, per sevire panini in un quartiere malfamato di Chicago, ci voglia la stessa professionalità di un’asettica cucina stellata.

Con immagini tremule e scolorite, The Bear segue la faticosa trasformazione del Beef. Ma per chi si aspetta una trama ben evidente da percorrere o una morale finale non c’è soddisfazione. La serie è piuttosto un insieme di situazioni – alcune lacrimevoli, altre molto comiche – quasi sconnesse tra loro. Tra blackout causati da macchinari vetusti, gabinetti che esplodono, flaconi di xanax che finiscono in bocce di cocktail per bambini, e coltellate non intenzionali nelle chiappe, i protagonisti di The Bear urlano, si disperano, s’insultano, cercano tregua in dispensa. Scontro dopo scontro, però, iniziano ad amalgamarsi.

Per quanto si rifiutino di mostrarli, quasi tutti i dipendenti del Beef sembrano portarsi dentro un doloroso motivo per resistere al cambiamento. Tuttavia, contrariamente alla tendenza narrativa di quest’epoca, The Bear non ne espone le ferite: lascia che emergano dai volti, dalle espressioni, dalle mani dei personaggi. Per coglierle basta osservare il modo in cui affettano, mescolano, assaggiano, massaggiano impasti, cullano padelle o le lasciano bruciare. Nel caso di Carmy, poi, si aggiunge tutto un mondo di contrasti emotivi annidato in altri piccoli e grandi dettagli. Ci sono i sogni ricorrenti, i tatuaggi sparsi, i capelli lasciati liberi di arruffarsi, dopo essere rimasti a lungo schiacciati sotto abbondanti spalmate di cera. Ma soprattutto c’è il menù scelto dal fratello, che si può migliorare, ma assolutamente non cambiare.

The Bear serie tv recensione
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Tutto ciò, The Bear lo mette in scena con un esercizio di stile che riesce a sembrare genuino. Le pietanze prendono forma in tutta tranquillità, con la grazia di un libro di ricette degli anni Settanta. Poi all’improvviso il panico collettivo scoppia e, nell’accumularsi degli intoppi, si snoda in piani sequenza dal livello di ansia quasi letale. Del resto, il creatore e regista Christopher Storer, aveva già esplorato le fatiche di una cucina professionale nel documentario del 2013 Sense of Urgency. L’obiettivo si muove quindi con una certa sicurezza tra gli spazi angusti del vero sandwich shop dove la serie è stata girata. E dallo schermo si percepiscono i ritmi e il senso di claustrofobia, ma anche di vicinanza, vissuti da chi li abita.

Come un orso grosso e morbido, infatti, The Bear genera sotto la sua parvenza feroce un caldo senso di famiglia. Trattando i suoi sottoposti da risorse, Carmy mostra loro di poter diventare tali. E, di ritorno, il loro graduale convincersene mostra a lui di possedere il valore che nemmeno il ristorante migliore del mondo gli aveva riconosciuto. Nessuno dei personaggi ha tuttavia bisogno di stanare le sofferenze altrui, per rassicurare la reciproca diffidenza e prendersene cura. Per questa serie la vulnerabilità non è un lamento strategico, ma una forza propulsiva.

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