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Le nuove serie Rai e il servizio pubblico tra passato e futuro

Un pizzico di amore e qualche manciata d’odio. Sunto perfetto dell’ultimo decennio (e poco più) di relazione tra gli spettatori italiani e la Rai, specialmente in fatto di serialità. Un alternarsi di sentimenti ambivalenti che si è levato più forte con la graduale crescita di consapevolezza di una fetta di pubblico. Non la più cospicua, ma quella dotata di cinguettio, oltre che avvezza al contatto con diverse forme di racconto televisivo e realtà di servizio pubblico. Quel che tuttavia non si può negare è che, risvegliatasi dall’inerzia, l’azienda di viale Mazzini abbia provato a oliare gli ingranaggi e ripartire. La reazione ai colpi incassati si è concretizzata in una successione di serie Rai chiamata a compiacere i cultori di Don Matteo, stuzzicando al contempo l’interesse dei detrattori del dramma spicciolo e del trionfo del buonismo.

Strizzata d’occhio alla platea più critica, che in un anno e mezzo è riuscita a maturare qualche buon frutto (da I Medici a Rocco Schiavone, passando per Non Uccidere), pur incappando in alcune produzioni fin troppo acerbe (come C’era una volta Studio Uno e Sorelle). In tal senso, il 2018 sembra essersi avviato nel verso giusto, seguendo la prima tendenza. Ne sono indizio Romanzo Famigliare e La Linea Verticale, che hanno segnato il ritorno dalle vacanze natalizie. Due storie – entrambe prodotte da Wildside e Rai Fiction – accomunate dal lodevole intento di attrarre gli spettatori di domani, senza spiazzare gli affezionati tradizionali. Imboccando tuttavia due strade diverse: più classica nel primo caso, meno timorosa nel secondo.

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Romanzo Famigliare e lo sceneggiato contemporaneo

Ha scelto la via del family drama (lo dice anche la “g” arcaica, ma non errata) Romanzo Famigliare, la serie Rai descritta da Francesca Archibugi come “un grande romanzo ottocentesco contemporaneo” ispirato “ai feuilleton di Balzac e Dickens”. Mira forse un po’ troppo ambiziosa, ma non del tutto fuori luogo. Dai primi episodi pare infatti di sfogliare le pagine rugose e ingiallite del libro che racconta – per voce dell’autista di casa – gli intrighi dei Liegi, influente famiglia livornese di origine ebrea. Il nucleo della storia è tutto al femminile, con il rapporto tra la mai cresciuta Emma (Vittoria Puccini) e l’affidabile figlia Micol (Fotinì Peluso), che scopre sedicenne di aspettare un figlio, proprio come accaduto alla madre. Attorno a loro, l’autorità prepotente delle figure paterne (Giancarlo Giannini e Guido Caprino), gli amori passati, i nuovi incontri. Intrecci di cui la fiction si serve per raccontare il conflitto generazionale e affrontare tematiche attuali.

Tra sessualità, aborto, anoressia 2.0, immigrazione, e altri drammi, si ritrae una gioventù smarrita e una generazione adulta troppo presa da sé per accorgersene. Nel doppio tentativo, ossia,  di recuperare il senso di servizio pubblico senza cedere al moralismo. Questo passo coraggioso finendo spesso per rassomigliare a una sequela di spot ministeriali (per la versione meno didascalica conviene citofonare a casa Broadchurch). Ma al contempo ne fa quasi un romanzo di formazione tenuto a galla dalle valide interpretazioni dei giovanissimi. Uno sceneggiato, insomma, che di episodio in episodio – 12 in totale di durata ragionevole – cerca una chiave contemporanea nel ricorso a un linguaggio poco manierato e finalmente spontaneo (solo a tratti calcato), tocco di colore in una storia che per ora non annoia.

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La Linea Verticale e il risvolto ironico della malattia

Se Romanzo Famigliare ha costruito un racconto di comune attualità su una struttura classica, di quest’ultima ha invece preferito spogliarsi La Linea Verticale. Un medical dramedy, si potrebbe definirla, in cui il tradizionale punto di vista si capovolge. Valerio Mastandrea è infatti Luigi, un paziente come tanti. Un quarantenne sposato e in attesa del secondo figlio, chiamato all’improvviso a combattere un cancro al rene sinistro. Nessun pietismo o melodramma, però. Il filtro è piuttosto quello del black humor. Il flusso dei pensieri di Luigi ne racconta le paure, le nevrosi, le manie di controllo, mentre esplora gradualmente le dinamiche interne al reparto di urologia oncologica, specchio dell’italianità moderna. Un microcosmo popolato di figure variegate, dal luminare rassicurante al chirurgo intrattabile, dal prete apatico al navigatissimo compagno di ricovero che elargisce pareri medici.

Qui si rivela l’origine teatrale di Mattia Torre – già autore di Boris e Dov’è Mario? – oltre all’esperienza personale che avvolge la vicenda di sincera umanità. Quest’ultimo è l’elemento narrativo più interessante. Curioso e genuino nel dar voce al rimuginare di Luigi (il cui primo pensiero va al proprio funerale e al timore di essere dimenticato), ma più dolce e sensibile rispetto alla cinica amarezza delle black comedy in voga nel racconto dell’attualità. Il surrealismo bizzarro (spesso non si distingue il sogno dalla realtà) si mescola al delicato scontro emotivo con la malattia, parlando a pubblici differenti anche in fatto di formato e rilascio. Gli 8 episodi da circa mezz’ora sono approdati interamente su RaiPlay prima di debuttare nel sabato sera di Rai 3. Un modello efficace della strada che le serie Rai continuano al momento a percorrere, pennellando il presente con un oscillare consapevole tra passato e futuro.

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