Le migliori serie tv del 2019
Non mi piacciono le teleclassifiche. Non mi sono mai piaciute: le ho sempre trovate piuttosto frustranti tanto da scrivere quanto da leggere. Quelle di fine anno, poi, sono il massimo della frustrazione. Per le proprie ci si danna nel tenere a mente i titoli, scremarli, posizionarli più sopra o più sotto. E non c’è mai una volta che quelle altrui combacino con le proprie preferenze. Così quando ho scoperto che Emily Nussbaum, da poco ex critica televisiva del New Yorker, ha aggirato l’ostacolo scrivendo una “non classifica”, ho deciso di provare a farlo anch’io. Ho diviso la mia lista in tante piccole liste (qualcuna presa in prestito da lei, qualcun’altra scelta da me) e titolo dopo titolo le ho riempite con le serie tv migliori e peggiori del 2019.
Ci sono quelle che nel corso dell’anno mi hanno divertita oppure spazientita, quelle perfette, quelle che per qualche motivo più o meno oscuro ho lasciato a metà, quelle che non pensavo e invece mi hanno stupita. Quella che più ho amato, però, è soltanto una, come quella che più di tutte ho detestato. Sono in fondo alla lista, se siete curiosi. Solo, dovete scorrere parecchio!
Le migliori e le peggiori serie tv del 2019
Le strane avventure di una sera
Special e Bonding (Netflix)
Non tutti i millennial sono gay e hanno una paralisi celebrale. E non tutti si mantengono con il sadomaso mentre studiano da psichiatri o comici. Ma le ansie e l’incertezza dell’emancipazione, quelle sì, sono sempre le stesse. Solo non sembrava che in un involucro tanto frivolo e poppeggiante potessero raccontarsi così bene. Specie in puntate da un quarto d’ora.
Come vendere droga online (Netflix)
Un nerd molto nerd e il suo amico in sedia a rotelle avviano un traffico di droga online, e il livello maldestro dell’azione è la cosa più bizzarra della storia. Oltre al fatto che sia vera. E che uno dei due sia un gommoso Martin Short tedesco. Anche le produzioni europee sanno svagarsi, ogni tanto.
Undone (Amazon Prime Video)
Strano è l’effetto dei disegni ricalcati sulle immagini reali. Strano è il dramedy al femminile che diventa mystery e poi thriller. Strani sono Bob Odenkirk fantasma, i viaggi nello spazio-tempo e i traumi psicologici che hanno davvero una forma. Tutto un po’ strano, insomma.
Tuca & Bertie (Netflix)
Come Girls e Fleabag, ma in un mondo allucinogeno che cambia forma al variare delle emozioni. Come BoJack Horseman, ma al femminile. La cosa più onesta che il dopo #MeToo abbia prodotto, cancellata da Netflix con insopportabile leggerezza.
Il regista nudo (Netflix)
Mai serie tv fu tanto lieta nel rivendicare tutti cliché sulla cultura del proprio paese di provenienza. Il che diverte, sebbene la vita rocambolesca di Toru Muranishi, il più rivoluzionario regista porno giapponese, vada presa a piccole dosi per rischio nausea.
Le perdite di tempo
Dirty John (Netflix)
Uno di quei thriller molto ridondanti, dove il colpo di scena si perde nella ripetizione delle situazioni. Per brividi veri, dicono, rivolgersi al podcast true crime da cui è stato tratto.
Turn Up Charlie (Netflix)
Non tanto per la non novità dell’omaccione (un impacciato Idris Elba) prestato al babysitteraggio, quanto per l’inconsistenza delle disavventure che dovrebbero creare imbarazzo ai personaggi, e invece causano disagio a chi li guarda.
Chambers (Netflix)
Non basta Uma Thurman a fare una gran serie.
Caterina La Grande (Sky Atlantic HD)
A che serve mettere insieme grandi risorse, uno dei registi di The Crown e Helen Mirren, se poi ci si perde nella morbosità di pettegolezzi storici non proprio veri?
Quelle che non pensavo, e invece…
Suburra (Netflix)
Perché è cresciuta lavorando sulle proprie mancanze. Perché ha interpreti di raro vigore. E perché è uscita dall’ombra di Gomorra. Anzi, l’ha sorpassata.
La verità sul caso Harry Quebert (Sky Atlantic HD)
In forma cartacea era stata una delusione molto annacquata. Su teleschermo ha invece condensato gli eventi, ridando al giallo la giusta suspense. L’ho iniziata per curiosità e senza accorgermene sono arrivata alla fine, con molto merito di Patrick Dempsey.
Baby, Stagione 2 (Netflix)
Sembrava un crime lussurioso (colpa di Netflix), ma in realtà si è scoperta essere il più classico e ingenuo dei teen drama. Eppure ha avuto un raro potere di catturare anche i non adolescenti, rispedendoli ai tempi di Dawson’s Creek.
BH90210 (Fox)
Se poco tempo fa qualcuno mi avesse detto che la pedante Beverly Hills, 90210 sarebbe tornata in versione comica non ci avrei mica creduto. Forse il reboot (anche se reboot non è) più surreale e intelligente mai visto.
Quelle che ho lasciato a metà. Ok, solo qualcuna di quelle che ho lasciato a metà…
True Detective, Stagione 3 (Sky Atlantic HD)
Per accontentare i tanti delusi dalla seconda stagione ha infilato le scarpe nelle esatte orme lasciate dalla prima. Ma i brividi non sono stati gli stessi.
Big Little Lies, Stagione 2 (Sky Atlantic HD)
Non so bene come sia successo, ma di sicuro la riprenderò.
Killing Eve (TIMvision)
Come sopra.
Fosse/Verdon (Fox Life)
Lustrini, riflettori, faide, star pluripremiate vestite da altre star pluripremiate sono una necessaria dose annuale di vintage hollywoodiano. Peccato che qui molto della vera storia d’amore – tossica, eppure inossidabile – tra Robert Fosse e Gwen Verdon (Sam Rockwell e Michelle Williams) sia stato dato per scontato, scoraggiando l’attenzione di chi prima non era passato da Wikipedia.
Il nome della rosa (Rai 1)
Buona l’idea, ottimi gli interpreti e pure la fattura. Non tanto il timore reverenziale per l’opera di Umberto Eco.
Le migliori, davvero
Sex Education (Netflix)
Ci si aspettava il solito racconto un po’ sciocco sulle tempeste ormonali adolescenziali, e invece si è rivelata un tenerissimo ritratto di quanto faccia paura crescere. Vedere episodi 2 e 5 per credere.
Russian Doll (Netflix)
Riuscire a narrare il ripetersi della stessa giornata evitando l’effetto noia è sempre un virtuosismo. Sarà per le morti sempre diverse e sempre più assurde di Nadia Vulvokov (Natasha Lyonne), per le sue ciniche massime di vita, o perché il suo blocco esistenziale accomuna un po’ tutti.
After Life (Netflix)
Il dramedy degli estremi, per cui ci si strugge singhiozzando e poi si ride di pancia. Con Ricky Gervais che finalmente ha conciliato il suo sé caustico e quello buono davvero.
The Good Fight (TIMvision)
Nessuno sa analizzare le contraddizioni del mondo di oggi quanto il seguito di The Good Wife. Il che lo rigenera di continuo e ne fa un piacere catartico, oltre che l’unico motivo per cui ringraziare l’elezione di Trump. Peccato si continui a ignorarne l’esistenza.
Mindhunter, Stagione 2 (Netflix)
La serie tv sui serial killer in cui nulla si vede eppure tutto fa paura ha ripreso a posizionare un pezzetto di trama dopo l’altro sul suo nastro a scorrimento lento. Non si sa bene dove voglia andare, ma il suo magnetismo basta a seguirla. Insieme alle riproduzioni fedeli, tra l’infantile e il temibile, dei suoi autocompiaciuti omicida seriali.
Succession, Stagione 2 (Sky Atlantic HD)
Che non fosse quella dei primi macchinosi episodi lo si era capito. Ma ora è diventata senza dubbio il drama più raffinato, l’unico che di questi tempi sia riuscito a far brillare detestabili personaggi murdochiani, o meglio, trumpiani. Sarà perché il dietro le quinte perverso dei colossi dei media fa sentire migliori. O forse per il piacere che procura la sua sceneggiatura di insulti molto molto cattivi e molto molto ricercati.
The End of the F***ing World, Stagione 2 (Netflix)
Si è inventata un’altra avventura, e poco importa che la prima fosse imbattibile. La sua forza è il racconto del disagio esistenziale di due teenager che si sentono fuori dal mondo. La sua forza è che non mescola commedia e dramma, ma parte da una per giungere fino all’altro. Insomma, la sua forza è la forza delle emozioni.
Watchmen (Sky Atlantic HD)
In realtà non l’ho ancora vista tutta, ma l’incipit è bastato per collocarla qui. Perché Damon Lindelof ha costruito un mondo grande e complesso che è la peggiore rivisitazione possibile del nostro reale. E perché ogni episodio stratifica cultura su cultura, partendo riferimenti più attuali per arrivare a quelli nascosti apposta per gli appassionati del fumetto. Così tanti, peraltro, che una sola visione non basta a scovarli tutti.
Quelle dolorose, ma ne è valsa la pena
Pose (Netflix)
L’apparenza luccicante inganna e per questo picchia più duro. La migliore storia (insieme a Feud) che Ryan Murphy abbia mai scritto, con molte vivide vibrazioni anni Ottanta.
Luther (Netflix)
Che poi dolore non è, ma più masochismo. Ormai si sa già, infatti, che i nuovi criminali hanno ossessioni più raccapriccianti dei precedenti.
Chernobyl (Sky Atlantic HD)
Una rappresentazione del dolore – fisico e psicologico – così stordente da non farne notare le imperfezioni. Senz’altro la serie più difficile da guardare di tutto l’anno tv, e non solo.
Unbelievable (Netflix)
Ha raccontato la violenza sessuale come si dovrebbe fare: focalizzandosi sulle conseguenze e non sul fatto. Ha insegnato che un crime può anche essere solo psicologia, che non sempre servono colpi di scena, che gli stupratori non meritano attenzione e che le donne non sono vittime da salvare. Chi l’ha definita la serie più femminista dell’anno un po’ ha ragione.
Quelle buone, ma non perfette. Che poi cos’è la perfezione? Nessuno è perfetto!
Quando gli eroi volano (Netflix)
Molto intrigante, anche se un poco prevedibile. Un ottimo promemoria per ricordarsi ogni tanto di dare un’occhiata alle sempre valide produzioni israeliane.
Euphoria (Sky Atlantic HD)
Lo smarrimento dell’adolescenza spiegato agli adulti che biasimano i giovani d’oggi, quando in realtà ne sono la causa principale di pericoli e problemi. Sembra un po’ un moderno Easy Rider (e ogni tanto lo supera in esagerazione), fatto di trip allucinogeni che procurano mal di testa tra violacee luci al neon e lacrime di glitter. La performance fluida di Zendaya, invece, procura enorme appagamento.
Modern Love (Amazon Prime Video)
Un cast grande, colori caldi e sentimenti veri – lacrime comprese – come le sue storie. A guardare i suoi corti sulle tante forme dell’amore, ci si innamora di nuovo dell’ormai snobbata commedia romantica. Ne servirebbero uno per giorno, come una confortevole tazza di cioccolata calda a fine giornata.
The Morning Show (Apple TV+)
Difficile capire se sia qui più per merito di Jennifer Aniston o per aver finalmente mostrato che son tutti bravi a urlare #MeToo, finché le contraddizioni non mettono in crisi anche loro.
Veronica Mars, Stagione 4 (Hulu)
Quindici anni sono passati, eppure è rimasta il teen drama brillante che era. Merito del cast nel frattempo conservato in una crio-capsula. Ma soprattutto dell’elemento procedurale, che difficilmente declina e offre miriadi di nuove possibilità. Per questo, la pigra soluzione finale per rilanciare gli eventi ha deluso il doppio.
El Camino (Netflix)
Va bene, è un film. Ma è anche il vero finale di Breaking Bad e il compimento dell’evoluzione di Jesse Pinkman. Quindi vale inserirlo qui.
Divertenti!
Sex Education (Netflix)
Sì, l’ho già citata, ma mi sono divertita troppo.
Catch-22 (Sky Atlantic HD)
Il racconto sulla guerra popolato non proprio da fulmini di guerra. E che colori!
Il caso Ziqqurat (ziqqurat.artchivio.net)
Il corrispettivo virtuale di un librogame, a metà tra Boris e la Melevisione. Forse non era il suo intento, ma trasmette nostalgia.
Stranger Things, Stagione 3 (Netflix)
Anche solo per l’intermezzo NeverEnding Story nel momento di maggiore suspense della serie. Poi, però, un litro di lacrime l’ho versato comunque.
Veep (Sky Atlantic HD)
Per 7 anni è stata lo specchio surreale dell’evoluzione del mondo politico. Chapeau aver avuto il coraggio di farsi da parte quando quest’ultimo si è fatto più surreale di lei.
Volevo fare la rockstar (Rai 2)
Finalmente una madre da fiction che impreca, si sbronza e soprattutto non si pettina.
You (Lifetime/Netflix)
L’unico peccato di gola molto trash che vale la pena di concedersi.
Ramy (StarzPlay)
Tutta la confusione che può addensarsi nella testa di un millennial che per un emisfero è liberalmente americano e per l’altro integralmente musulmano.
Quelle che sono piaciute agli altri, ma non a me
Gomorra, Stagione 4 (Sky Atlantic HD)
Lontana da Ciro è parsa un ensemble di personaggi che fanno cose molto noiose. O forse il problema è che è diventata troppo buona.
La casa di carta (Netflix)
Improbabile esagerazione è l’anagramma del suo nome. Naturalmente si fa per dire, piccoli ammiratori populisti.
Io sono Mia (Rai 1)
Ma provate ad ammetterlo, che una fiction ha sbagliato strada, quando racconta la vita di una fragile e intoccabile leggenda…
Quelle che sono piaciute a me, ma non agli altri
Black Mirror, Stagione 5 (Netflix)
Sarà parsa pure meno distopica e più rosea dei suoi standard. Ma in un mondo che ormai è già distopico di suo aveva forse altre alternative?
Game of Thrones (Sky Atlantic HD)
Ha chiuso un po’ di fretta e puntando più a stupire che a raccontare. Ma un piccolo inciampo finale non può annullare un decennio di meticoloso Risiko televisivo, generi opposti dosati alla perfezione e folti gruppi di visione – formati dagli spettatori più diversi – calamitati di settimana in settimana. In confronto, tutto il resto continua a sembrare microscopico.
Extravergine (FoxLife)
Senza troppe elucubrazioni: spassosa!
Quelle che avrei dovuto recuperare per poter farmene un’opinione
The Handmaid’s Tale (TIMvision)
Anche se, a giudicare dalle critiche altrui e dal progressivo eclissarsi della serie, non credo di essermi persa molto. Sbaglio?
The Marvelous Mrs. Maisel, Stagione 3 (Amazon Prime Video)
La vedrò, giuro. Ma come i peggiori dei fuori corso a cui da anni manca solo la tesi mi sono fermata al penultimo episodio della stagione precedente.
1994 (Sky Atlantic HD)
Sul suo conto ho letto e sentito solo buone cose. Perciò vedrò di convincermi a recuperare il capitolo precedente, sebbene il primo non mi avesse entusiasmato.
Quelle che ho detestato, ma proprio tanto
Non mentire (Canale 5)
Niente, non si riesce a uscire dalla solita fiction nemmeno copiando.
Love, Death & Robots (Netflix)
Sadica senza ragione.
What/If (Netflix)
Insensata.
Riccione (YouTube – Rai Pubblicità)
Di ignoranza stantia.
Tredici (Netflix)
Pedante!
City on a Hill (Sky Atlantic HD)
Soporifera già solo a nominarla, zzzz.
Made in Italy (Amazon Prime Video)
Da ridere, ma non nel senso comico del verbo.
Quelle che avrei visto (o finito di vedere) se non avessi perso tempo con quelle di prima
Criminal (Netflix)
La confezione sembrava intrigante, ma mannaggia alle scelte sbagliate.
(E anche a Unbelievable che è riuscita a sembrarlo di più).
Carnival Row (Amazon Prime Video)
Ma non è che mi ispirasse poi tanto.
The Crown (Netflix)
Ok non è vero, qui la colpa è del procrastinare.
La migliore di tutte
Fleabag (Amazon Prime Video)
Un’opera d’arte. Anzi, una doppia opera d’arte. Il primo capitolo era teatro intimista in tv: sperimentale, provocante, sofferente. Il secondo si è ampliato a una danza corale di crisi molto più comiche. Pochi altri sanno maneggiare il fare e disfare psicologico come riesce a Phoebe Waller-Bridge, si tratti di farlo con storie d’amore impossibili o più banali tagli di capelli a matita. La sua protagonista (e non solo lei) non è un nome, è una personalità. La si guarda, la si riguarda e poi si ripartirebbe daccapo altre cento volte. E non ce n’è una che lo stomaco non si contorca. Non è solo la serie tv migliore del 2019. Lo è almeno dell’intero decennio.
La peggiore in assoluto
Too Old To Die Young (Amazon Prime Video)
Ai cinefili estimatori di Nicolas Winding Refn è piaciuta parecchio, e può essere che l’errore sia tutto mio. Ma non c’è minuto dei suoi infiniti episodi in cui non l’abbia percepita come un’enorme ed egoriferita presa in giro. Posso riconoscere il pregio dell’estetica conturbante e violenta, della scrittura taciturna e delle fascinose movenze iper-rallentate. Non però la boria di presentarsi in tv con la convinzione di farle un favore. Perché è proprio l’esatto contrario. Non esistono infatti “serie tv che sono film di 8 ore”. Solo cineasti supponenti con pellicole uscite troppo lunghe, che altrimenti non saprebbero a chi altri rifilare.
Serie tv 2019 – I migliori personaggi
Il prete Sexy (Andrew Scott) – Fleabag
Perché è il corrispettivo maschile delle millennial dalla vita disfunzionale che hanno dominato questo decennio seriale. L’unico a fare strage di spettatrici (e spettatori) benché declini i “Ti amo” con amorevoli “Passerà”. Sia più merito di chi lo interpreta (Andrew Scott) o di chi lo ha creato (Phoebe Waller-Bridge) resta ancora da decifrare.
Nadia Vulvokov (Natasha Lyonne) – Russian Doll
Perché prima di lei di eroine così non ne esistevano. Lei che si definisce la figlia di “Andrew Dice Clay e la ragazzina di Ribelle” e che non crede subito alla magia da film, prima chiede spiegazioni al suo spacciatore. Lei, infine, che ha un blocco di vita così potente che vien voglia di abbracciarla, nonostante una corazza ben spessa di ruvidità.
Otis (Asa Butterfield) – Sex Education
Perché lo si guarda aggirarsi per il teleschermo con occhi sgranati e si ringrazia di non aver avuto la sua adolescenza. I suoi imbarazzi divertono (con un po’ di senso di colpa), la sua tenera ingenuità scioglie. Non si può non amarlo, punto.
Tony (Ricky Gervais) – After Life
Perché il Ricky Gervais caustico ha incontrato il Ricky Gervais morbido, e ne è uscito un signore con il superpotere dell’insulto libero, auto-attribuitosi per lenire le sofferenze sfogando rabbia. E perché in questo anno sabbatico di Jeff Pickles (Jim Carrey, cioè) ne ha preso il posto come portabandiera dei personaggi dall’animo puro.
Adrian (Adriano Celentano) – Adrian
Perché non sta scritto da nessuna parte cosa significhi essere i migliori personaggi. E perché, da buon orologiaio qual è, ha spinto indietro i decenni per restituire l’Adriano Celentano più aitante, eroico, erotico e utopico che sia mai visto (forse perché non è mai esistito). E anche il più sfuggente, peraltro.
Serie tv 2019 – I migliori episodi
Russian Doll – Niente in questo mondo è facile (1×01)
Perché è una sinfonia di massime di vita e battute molto caustiche, da annotare per vincere qualsiasi scontro verbale nei prossimi dieci anni (almeno).
Il Trono di Spade – La lunga notte (8×03)
Perché nel buio (c’è chi dice troppo) ha agguantato gli spettatori, li ha sbatacchiati per bene e poi posati gentilmente all’alba, dopo un insperato lieto fine. Fosse stato il vero epilogo della serie, nessuno si sarebbe lamentato. O forse sì.
Fleabag – Episodio 1 (2×01)
Perché in mezz’ora ha condensato, nell’ordine: una cena di famiglia, causticità varie, l’annuncio di un matrimonio, l’inizio di un divorzio, un aborto, altre causticità, il flirtare tra un’istrionica e un prete cattolico, una rissa, Olivia Colman isterica e narici sanguinanti. Il tutto, senza mai lasciare – o quasi – il tavolo di un ristorante.
Chernobyl – 1:23:45 (1×01)
Perché di tutti gli episodi della miniserie è forse più leggero ma quello con maggiore tensione, benché il corso degli eventi si conosca già. Un continuo rilanciare l’attesa di un grande boom, che però non si palesa: implode in un silenzio anche più assordante.
Watchmen – È estate e stiamo finendo il ghiaccio (1×01)
Perché da questa serie non si sapeva bene cosa aspettarsi, e il suo primo episodio lo ha messo bene in chiaro. Un’ora così ricca di dettagli, peraltro, che ogni volta la si strizza ne gocciolano di nuovi.
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