La non classifica delle migliori serie tv del 2023
Il 2023 non è ancora finito, eppure è già passato il periodo di quei lunghi listoni che passano in rassegna le migliori e peggiori serie tv dell’anno. Chi legge Tellyst però sa bene che, per stilare la propria, di lista, questo blog aspetta sempre che il calendario televisivo si sia pressoché esaurito del tutto. Capita quasi sempre, infatti, che all’ultimo arrivi qualche titolo meritevole di infilarcisi dentro.
La formula è sempre quella della non classifica: ci sono tante piccole liste, che man mano (almeno negli intenti non procrastinatori), vengono riempite con le serie tv più belle, quelle più strane, quelle sorprendenti, quelle divertenti, quelle detestabili, quelle non viste, le perdite di tempo, e via dicendo.
Anche stavolta l’elenco è bello lungo, si avvisa. E nel caso non abbiate tempo e voglia di scorrerlo tutto, basti sapere che le serie tv migliori del 2023 sono riuscite a trattare storie già viste, e in alcuni casi consumate, con una freschezza sorprendente, mentre quelle peggiori hanno sono parse parecchio incosistenti. Con il punto più alto raggiunto da una gran serie che ha fatto riassaporare il piacere della vecchia tv, e quello più basso segnato da un dramma italiano in costume alquanto approssimativo. Le trovate in fondo in fondo, se preferite partire da lì.
Le migliori e le peggiori serie tv del 2023
Le strane avventure di una sera
The Followers (Paramount+)
Una di quelle classiche storie di persone tranquillissime – o così pare – che per sbaglio uccidono qualcuno, ma poi ci prendono gusto. Solo che, stavolta, la serial killer è una tizia brasiliana che di mestiere fa l’aspirante influencer, e perciò tratta cadaveri con olio di cocco, li conserva in frigoriferi brandizzati, e poi li seziona in gradevoli pacchettini rosa. E mentre la polizia cerca temibili sicari del narcotraffico, ogni episodio è un trattato sulla rabbia repressa che si nasconde (ma neppure troppo) dietro certi profili Instagram.
The Changeling (AppleTV+)
Una di quelle classiche storie romantiche che filano così lisce e perfette da sembrare spot ministeriali per le politiche famigliari e la natalità. Almeno finché non si trasforma in una favola fantasy venata di horror, che include leggendarie creature rapitrici di bambini sani e belli, un’isola segreta al largo di New York City, una comune di madri che picchiano duro, un gruppo di troll online dagli intenti sinistri, una magica civiltà sotterranea, personaggi che si dileguano dopo aver sganciato enormi interrogativi, e un Lakeith Stanfield che nei momenti impetuosi si dà forza urlando a sé stesso «Sono il dio Apollo». L’idea è di raccontare le paure ancestrali dell’essere figli e poi genitori, attingendo a secoli di credenze popolari. La resa è più un treno in corsa cui si fatica a star dietro. Ma il coraggio di sperimentare, quello c’è.
The Enfield Poltergeist (Apple TV+)
Si era presentata come una terrificante docuserie true crime sulla casa infestata più famosa di Inghilterra. Invece si è rivelata la cronaca bizzarra di come un gruppo di seriosi luminari abbia preferito credere che gli scompensi mentali e le contorsioni circensi di una ragazzina fossero dovute a forze paranormali, anziché a quelle traumatiche della sua storia familiare. Un punto in più per la scelta di raccontare il tutto come una messinscena televisiva, e di farlo anche con una certa brevità. E nonostante il labiale degli attori, che si muove sulle vere registrazioni raccolte sul caso, si prenda quasi tutta l’attenzione, qualche coincidenza solleva davvero un brividino.
Swarm (Prime Video)
Una venti-e-qualcosa-enne parecchio stramba, e per questo nullafacente, si risveglia dal suo stato pseudo-catatonico solo per uccidere chiunque osi criticare la sua cantante preferita e poi attingerne ai frigoriferi per riprendersi dalla fatica. Lo stile è quello provocatorio, tipico della satira sociale di Donald Glover. E dopo innumerevoli mesi c’è ancora da capire se sia geniale o solo disgustosa.
Gigolò per caso (Prime Video)
Sei mezz’ore al seguito delle avventure sessuali di Pietro Sermonti Alfonso – pardon – orologiaio sensibile e ascoltatore di podcast femministi che prima si nausea alla scoperta che suo padre è da sempre un gigolò di successo, e poi, minacciato e cornuto, ne rileva le clienti per riacquisire denaro e dignità. Per lunghi tratti si assiste a una carrellata di camei e situazioni di incosistenza comica che fa tanto Vacanze di Natale (il padre, d’altronde, è Christian De Sica). Ma Sermonti è quasi lo stesso di Boris, e quindi lo si segue ovunque.
Le perdite di tempo
Luther: Verso l’Inferno (Netflix)
Era quello dove Idris Elba s’era rimesso il cappotto da investigatore per dare la caccia a un serial killer molto sadico e impossibile da acchiappare (vuoi mettere il potere di celare identità delle sole lenti a contatto?). Ma, sotto forma di film, Luther non fa paura.
L’ultima cosa che mi ha detto (Apple TV+)
Un thriller melenso dove l’unico elemento tridimensionale della storia sono i soprammobili in legno creati da Jennifer Garner. E la prova – anche quest’anno – che non tutti gli adattamenti contesi dai servizi streaming sono un gran affare.
And Just Like That… 2 (Sky e Now)
Bisogna capire se si perda più tempo a seguire le storie prive di utilità dei personaggi inseriti per occupare le categorie dell’inclusivo, oppure a sperare che quelli vecchi tornino ai fasti comici passati. (A occhio e croce, la seconda).
Quelle che non sembrava, e invece…
YOU 4 (Netflix)
Dalle avventure sempre più shondalandiane di Joe Golberg, stalker della porta accanto che salutava sempre, ci si aspettava una perdita di attrattiva. Ma il cambio furbo di continente e di formula le ha ridato nuova vita.
La legge di Lidia Pöet (Netflix)
Pareva una di quelle solite serie in streaming a cui basta ammassare volti di rilievo in una sceneggiatura poco robusta per atteggiarsi a innovatrici della televisione italiana. E forse lo è davvero. Ma a sopresa funziona comunque meglio di tante fiction generaliste.
Nettare degli dei – Drops of God (Apple TV+)
Da una serie che parla di vino si temeva poca intensità emotiva. Invece il fascino passa proprio dalla nerdaggine enologica che, un’annusata di qui e un assaggio di là, intesse la relazione tra una scrittrice francese e un esperto di vini giapponese chiamati a contendersi una collezione di bottiglie rarissime, lasciatagli in eredità da un padre che non sanno di avere in comune. Gli episodi sono sorprendentemente lenti, composti, silenziosi. Se ne è parlato poco, ma non è un peccato: il gusto sta nel scoprirla.
Il principe (Netflix)
Non si sa come Vittorio Emanuele si sia convinto che comparire in una docuserie su un caso di omicidio di cui fu l’unico accusato fosse una buona idea. E non si sa come Beatrice Borromeo, figlia di un’amica della sorella della vittima, l’abbia convinto a conversare amabilmente con lei. Ma il risultato è un collage mirabile, per quanto a tratti blando, di filmini privati, esami di realtà nulli e una confessione finale che lascia a fantasticare su una saga di documentari brevi sui principi dal grilletto facile.
Still Up (Apple TV+)
Qui invece la relazione è quella di amicizia – si fa per dire – tra un’illustratrice un po’ folle e un giornalista blindato in casa dall’agorafobia, che si trovano uniti da un’insonnia cui non c’è rimedio. Le loro videochiamate notturne sono così tenere che ad assistere ci sente quasi di troppo.
Un’estate fa (Sky e Now)
Sarà il salto temporale nelle estati di infanzia trascorse in campeggio. Sarà che sembra davvero di tornare negli anni Novanta. Sarà che per una volta un thriller italiano resiste alla tentazione di far capire subito chi sia l’assassino. Sarà che è riuscita a rendere sopportabile il posticcio stile recitativo di Lino Guanciale.
Quelle lasciate a metà. Ok, solo qualcuna di quelle lasciate a metà
Ted Lasso 3 (Apple TV+)
Tanto faticosa è stata la corsa per recuperare le due stagioni precedenti, che lo sprint si è esaurito a pochi metri dall’arrivo.
Frasier (Paramount+)
È possibile che il confronto istintivo con l’originale l’abbia resa più indigesta di quanto non sia davvero. Tant’è che circola voce che si debba darle qualche episodio di tempo per togliersi un po’ di soddisfazioni.
Noi siamo leggenda (Prime Video, Rai 2 e RaiPlay)
Riprenderla è d’obbligo, almeno per capire se ce l’abbiamo fatta, ad avere dei supereroi italiani credibili.
Qui s’è ancora fermi all’unica puntata davvero cannibale (ma fin lì il viaggio è stato assai godibile).
Il commissario Gamache (Netflix)
Recuperarla sarebbe poco utile: l’hanno già cancellata.
Le migliori, davvero
Call My Agent – Italia (Sky e Now)
Di commedie italiane appaganti che non fossero Boris, non se ne vedevano da tempo. La versione romana di Call My Agent ha ovviato alla condanna di vivere in un paese dallo star system pressoché inesistente e per nulla autoironico, alla rassegnazione di assistere a remake imbarazzanti, semplicemente osservando vezzi e lacune della nostra industria dell’intrattenimento. I divi giocano con i propri tratti peculiari facendoli culminare in vezzi, debolezze, isterie, capricci. Agenti e assistenti sbraitano, manipolano, commettono leggerezze e poi se ne ansiano. Con uno scambio di battute intelligente, ritmato, che segue le volubilità dei personaggi, e per questo si esprime in maniera reale. E per una volta gli attori meno noti non guastano la festa alle star di passaggio, e viceversa.
Shrinking (Apple TV+)
Jason Siegel è uno psicologo appena rimasto vedovo che decide di rapportarsi coi pazienti senza più appellarsi al potere filtrante dei lobi frontali. Harrison Ford è il collega saggio che tenta di farlo rinsavire, con quel suo ghigno che per metà sorride comprensivo e per metà lascia intuire imprecazioni. Il creatore è lo stesso di Scrubs e Ted Lasso. Si ride del dolore, si piange di tenerezza. Il quadro è tratto.
Succession 4 (Sky e Now)
Per essere riuscita a fare di ogni episodio un capolavoro. Per averlo fatto quasi solo maneggiando le parole in modo prodigioso. Per i matrimoni diventati lutti. Per i lutti percepiti come liberazioni. Per i razzi schiantati con leggerezza. Per le sessioni di rap sfigato. Per la raffinatezza degli insulti creativi. Per aver reso avvicente la sua saga familiare nonostante le oscure supercazzole finanziarie. Per aver costruito un’idea di ricchezza anche su telefoni costosissimi privi di custodie antiurto. Per quei personaggi feriti e così selvatici da preservare l’imprevedibilità di ogni scelta, fino alla fine. Per aver scelto di fermarsi sul più bello, senza rischiare di trascinarsi più avanti del dovuto.
Beef (Netflix)
Due sconosciuti dalle vite agli antipodi sfiorano l’incidente in un parcheggio, strombazzano, alzano il dito medio, s’inseguono, e danno vita a una faida che non sembra mai dare sfogo a tutte le frustrazioni di una vita. Il loro viaggio è un continuo rilanciare di chiamate anonime, escrementi distribuiti sui pavimenti altrui, vergogne passate, umiliazioni presenti, abbufate solitarie, che si ferma solo a cinque minuti dalla fine, con l’allegro contributo di bacche allucinogene. Con una cura per la messinscena che fa parlare ogni dettaglio, dalle luci ai vestiti, fino ai panini con il pollo. Se non è la miglior serie dell’anno, poco ci manca.
The Diplomat (Netflix)
Keri Russell è un’insicura diplomatica americana chiamata a Londra per evitare una crisi internazionale. Rufus Sewell è il marito-collega che proprio non riesce a starle un passo dietro. Capire le dinamiche del loro matrimonio è stato uno dei passatempi più complessi e gradevoli di quest’anno televisivo. Anche perché di rado ci s’imbatte in una scrittura dall’intelligenza tanto sopraffina.
La regina Carlotta (Netflix)
Ci voleva un attimo a scivolare sulla scelta di creare uno spin-off di Bridgerton, accontentandosi di riempire l’attesa dei nuovi episodi. Ma Shonda Rhimes – che mai si accontenta – ha preferito aggiungere dimensioni all’originale e spiegare le origini del suo mondo idilliaco costruendo sulla realtà una fantasiosa storia di paure innescate dalla precarietà mentale e dalla menopausa sentimentale. La militanza è esplicita, stavolta. Ma la scrittura sfiziosa e i personaggi giusti alleviano il prurito. E alla fine si piange pure.
The Bear 2 (Disney+)
Ha mantenuto il ritmo ansiogeno, le nevrosi, l’urlare vulnerabile della prima stagione. E nel mentre ha fatto diventare adulti i suoi personaggi. Non è un caso che fuori dalla sua porta ci siano attoroni che fanno la fila per un cameo di pochi minuti.
The Buccaneers (Apple TV+)
Chi avrebbe mai pensato che una copia di Bridgerton sarebbe risultata tanto fresca? Il merito è di Edith Wharton, che ha nascosto sotto vesti romantiche una storia ottocentesca, eppure incredibilmente moderna, di amicizia femminile. Ma è anche della comica Katherine Jakeways, che ha messo a posto i tasselli del suo romanzo incompiuto con un umorismo brillante, schivando la retorica pedante che oggi ammorba anche le serie migliori. Lo scontro delle sue arricchite ragazze americane con la rigida aristocrazia britannica in decadenza procura un appagamento che è un peccato veder finire.
A Murder at the End of the World (Disney+)
Quando pensi che non ci siano più thriller capaci di avvincere, ecco che arriva la sopresa. Un giallo dove Emma Corrin è una giovane detective amatoriale che finisce in un inquietante raduno ai confini del mondo, organizzato da un ambiguo milionario. La resa è l’equivalente di un episodio di Black Mirror scritto da Agatha Christie. Con panorami sconfinati così bianchi da far male agli occhi.
Quelle dolorose, ma ne è valsa la pena
Questo mondo non mi renderà cattivo (Netflix)
È vero, sarebbe stata benissimo nel gruppo sopra. Ma tocca rimarcare l’abilità di Zerocalcare nel metterci davanti alle nostre incoerenze, attraverso gli occhi di chi troppo spesso non ha voce.
Reservation Dogs 3 (Disney+)
Un racconto nascosto, ma potente, delle anime, delle teste, degli occhi, delle relazioni che convivono con l’aura di morte che aleggia nelle riserve indiane. È una commedia, ma perlopiù si passa il tempo ad asciugarsi gli occhi.
Quelle buone, ma non perfette. Che poi cos’è la perfezione? Nessuno è perfetto!
The Night Agent (Netflix)
Si è depositata su Netflix senza grandi proclami, e ne è diventata la serie più vista (nella prima metà dell’anno, almeno). Nonostante la semplicità degli sviluppi. Nonostante l’eroismo del suo protagonista – un giovane agente segreto che da umile telefonista si trova a sbrogliare un intrigo internazionale – raggiunga picchi di assurdo. O forse, proprio per questo.
Platonic (Apple TV+)
Per la prima volta una storia di amicizia tra un uomo e una donna non finisce in smanceria. E per la prima volta (o quasi, ve la ricordate Fleabag?) una crisi di vita non conduce facilmente a traumi passati. Mentre gelosie e sospetti tutt’attorno non costruiscono antagonisti, ma solo personaggi in cerca di una spiegazione alle proprie reazioni.
Hijack (Apple TV+)
Idris Elba è uno degli ostaggi più fastidiosi e sprovvisti di bagaglio mai visti in tv, e deve ingegnarsi per salvare un aereo da un gruppo di dirottatori non troppo svegli. Per essere in un thriller si viaggia a rilento e con pochissime turbolenze. Ma l’ignoto generale (su di lui, su di loro, sulle autorità che da terra assistono) è l’attrattiva delle sette ore di volo.
Blanca 2 (Rai 1 e RaiPlay)
Come una protagonista disabile, ma di spirito, può tenere in piedi un classicissimo poliziesco che si compone degli espedienti consumati della fiction generalista e accenti genovesi mal riusciti – ora potete respirare.
Murder of God’s Banker (Paramount+)
La misteriosa morte del banchiere italiano Roberto Calvi è una faccenda popolata da un numero di cattivissimi illustri che nemmeno in una storia di finzione. Questa docuserie l’ha ricostruita fondendo generi più o meno convenzionali, senza fingere finalmente che il true crime non sia intrattenimento.
Divertenti!
Ecco a voi i Chippendales (Disney+)
Anche se di divertente, nella vera storia di un immigrato riscattatosi con un locale di spogliarelli maschili e poi finito con l’uccidere i suoi concorrenti, c’è poco e niente.
Call My Agent – Italia (Sky e Now)
Sì, era già nelle serie migliori per davvero. Ma vuoi non ringraziarla per quel monologo serio di Sorrentino e i muggiti di Accorsi?
Cunk on Earth (Sky e Now)
Il mondo spiegato da un finto documentario creato dall’ideatore di Black Mirror e da una finta divulgatrice che si aggira per finti paesaggi, facendo il verso alle domande prive di senso dei giornalisti odierni – che putroppo finte non sono. E s’impara pure qualcosa…
Vale il complimento dell’anno scorso: non finge di essere il thriller che non è, e per questo si segue con piacere.
Only Murders in the Building 3 (Disney+)
Quello che succede quando prendi due comici dalla sintonia decennale, gli affianchi Meryl Streep e una manciata di altri bravi attori, e lasci che si divertino a dar libero sfogo al proprio mestiere, senza legarli alla risoluzione seriosa dell’omicidio di turno.
Quelle che sono piaciute agli altri, ma non a Tellyst
Fleishman a pezzi (Disney+)
Un’accozzaglia mal gestita di tutti quegli espedienti che allungano la durata percepita di molte serie tv odierne: mogli infelici, mariti nevrotici ed egoisti, bilanci di quasi mezza età, svolte necessarie tenute in serbo per l’ultimo episodio, e una voce narrante che spiega tutto, ma proprio tutto, agli spettatori sprovveduti. Non si fosse annunciata come una storia à la Roth, o peggio, à la Allen, il fastidio sarebbe forse stato un po’ più contenuto. Ma c’è un motivo se la psicologia così tanto parlata, semplificata, poco approfondita funziona.
Silo (Apple TV+)
Forse voleva sembrare Dune, oppure Andor, o Snowpiercer, invece non è riuscita a distribuire in modo equilibrato le fasi salienti della sua storia, finendo per avvilupparsi su sé stessa e tornare a più riprese su punti già ampiamente maneggiati, lasciando incompiute diverse lacune. Bisogna riconoscerle il merito, però, di aver reso la sua città sotterranea verticale davvero claustrofobica e immersiva.
Pesci piccoli (Prime Video)
La prima comedy prodotta dai The Jackal equivale a tre ore di video youtubici dei The Jackal. Un po’ si sperimenta, un po’ si guarda alle grandi commedie da ufficio. Ma in tv ci vuole altro per poter superare il limite degli sketch da liceo. Generazione 56k era un’altra satira, insomma.
Quelle che sono piaciute a Tellyst, ma non agli altri
Citadel (Prime Video)
Un concentrato di movimento, autoironia, bravi attori e gadget esplosivi che scivola via liscissimo e gradevole come pochi altri. Certo, la storia è debole e raffazzonata, e non si capisce come possa essere costato così tanto. Ma Amazon farebbe bene a rivedere la sua strategia comunicativa: più che alte aspettative, genera antipatia.
Black Mirror 6 (Netflix)
Il compimento della trasformazione di una serie che ha sempre detestato concedere al suo pubblico la presunzione di crederla prevedibile. Non tutti i nuovi episodi hanno raggiunto la logica, la lucidicità e l’intensità angosciosa dei precedenti. Ma se prima ci si poteva illudere che l’obiettivo fosse procurare ansia sul futuro sempre più tecnologico del mondo, adesso è ben chiaro che a generare inquietudine è la scoperta di quanto la natura umana che c’è dietro sia rimasta bloccata nel passato.
I vizi
Liaison (Apple TV+)
Non per il senso indecifrabile degli eventi, né per le scelte da dilettanti dei personaggi, e nemmeno per la tensione, che viene puntualmente recisa sul più bello. Ma per le intenzioni valide, le belle musiche e due interpreti molto sensuali che convincono comunque a farsi guardare.
Sex/Life 2 (Netflix)
Come un porno soft con poca logica e denudamenti improvvisi può fare centro nel raccontare i bisogni sacrificati per inseguire una vita perfetta e il narcisismo, quello vero.
The Lovers (Sky e Now)
Una commedia romantica incidentata, dove tutto accade subito e il conflitto è la via per conoscersi davvero. Deliziosa è dir poco.
Quelle che avremmo dovuto recuperare per farcene un’opinione
Yellowstone e 1923 (Sky e Now, Paramount+)
Sarà il western misto alla telenovela, o solo la paura di restarne invischiati…
Mare fuori (Rai 2 e RaiPlay, Netflix)
Ma c’è tempo fino a metà febbraio per rifarsi.
The Crown 6 (Netflix)
È che lo stupore per i fasti scenografici e per la somiglianza prodigiosa con i veri reali si era esaurita, ecco.
Le delusioni
The Crowded Room (Apple TV+)
Forse, dire fin dal principio che parlava del caso più emblematico di disturbo dissociativo dell’identità le avrebbe dato una mano. Ma forse, eh…
Sex Education 4 (Netflix)
Dalla serie genuina e intelligente che era, si è trasformata in una frustrante lista di argomenti impegnati da spuntare. Voleva includere tutti, insomma, ma è finita per non dare a valore a nessuno. Se non altro, si è fermata in tempo.
Lezioni di chimica (Apple TV+)
Bella, è bella. Almeno a livello visivo. Perché non c’era proprio bisogno di smembrare la storia originale per incastonarla nei canoni inclusivi del momento, finendo per svuotarla di logica e intensità.
Quelle detestabili, ma proprio tanto
La vita bugiarda degli adulti (Netflix)
Avrebbe potuto emanciparsi in tutto dal libro di Elena Ferrante, tranne che dall’angoscia bruciante generata dalla ferocia dei personaggi. Ha fatto l’esatto contrario.
È quella serie pseudo-antologica che ha radunato grandi attori per mostrarci gli effetti devastanti del cambiamento clim… zzz.
Il quasi omicidio di una giovane newyorkese connette le storie più o meno torbide di un ragazzo in crescita, una famiglia di ricchissimi immobiliaristi, un gruppo di musicisti dannati, e una scia di incendi. Ma la piattezza rende i personaggi tutt’altro che incendiari.
The Idol (Sky e Now)
Avete presente quando gli adolescenti calcano senza senso la mano sul provocatorio, pensando che non abbiate mai visto niente di tanto scandalizzante? Ecco.
Everybody Loves Diamonds (Prime Video)
Come si fa a non irritarsi davanti all’ennesimo, plateale spreco di una storia assurda che si sarebbe scritta da sola, non si fosse scelto di raccontarne la parte meno interessante per sembrare originali?
Quelle che avremmo visto (o finito di vedere) se non avessimo perso tempo con quelle di prima
Copenhagen Cowboy (Netflix)
Però non ha fatto gran rumore, se vale come scusante…
Django (Sky e Now)
Almeno qualcuno si è accorto che è uscita?
Daisy Jones & the Six (Prime Video)
Ne vale la pena? Non ne vale la pena? Boh, chissà!
The Good Mothers (Disney+)
Ma conviene recuperare, consigliano gli americani ormai amanti dei sottotitoli.
Secret Invasion (Disney+)
Mai serie Marvel passò tanto inosservata.
I Am a Virgo (Prime Video)
Il rimpianto dell’anno, mannaggia alla riesumazione di Sex and the City lassù.
One Piece (Netflix)
Ma c’è un anno intero per recuperare (sorriso imbarazzato).
Bodies (Netflix)
Qui la colpa è della sovrapposizione con le detestabili dell’anno.
The Curse (Paramount+)
A giudicare dalle liste altrui, sarebbe senz’altro finita tra le serie tv migliori del 2023.
Slow Horses (Apple TV+)
Sì, anche quest’anno (sorriso molto colpevole)…
La migliore di tutte
The Last of Us (Sky e Now)
Le serie tratte da videogiochi hanno sempre pensato che, da loro, il pubblico volesse solo azione pomposa. The Last of Us no. The Last of Us ha capito che il punto è condividere la visuale e i movimenti dei personaggi, per provarne le emozioni in prima persona. La sua è una replica esatta del gioco originale, che per ampi tratti mette il controller nelle mani dello spettatore. Ma poi, quando se lo riprende, assume le sembianze della vera televisione, quella che esplora diversi gradi di scrittura, quella che sa costruire una connessione emotiva sui silenzi dei protagonisti, quella che si prende lo spazio di guardare anche alle storie di che li circonda, quella che fa emergere umanità dalla mostruosità servendosi di dettagli minimi, come un pigiama rosa. Perché nel suo mondo per noi tutt’altro che postapocalittico, si fanno scelte e si dicono bugie brutali per il solo istinto di sopravvivere, anche se il sollievo più grande sarebbe morire. E il fatto di esserne complici rende il tutto più doloroso. Da tempo non si vedeva una serie capace di incollare lì, davanti allo schermo, ad aspettare il livello successivo pur sapendo che farà male. Si cercava il nuovo Trono di Spade nel fantasy, ma la vera erede è qui.
La peggiore in assoluto
I Leoni di Sicilia (Disney+)
In principio questo era il posto di The Idol, ma sarebbe stato fin troppo facile: a esser considerata la serie più brutta del canale televisivo con le produzioni più belle, si passa già da sola alla storia. Più difficile, invece, trovare ancora la forza di vergognarsi davanti all’ennesima sciatteria italiana spacciata per gran cosa dalla piattaforma di turno. La versione televisiva della saga dei Florio è infatti la conferma che nemmeno lo streaming può fare a meno della fiction formato Teodosio Losito (che, se non altro, non pretendeva di farsi credere alta televisione). Un collage impaziente di eventi, capitoli selvaggiamente troncati, musiche che vanno felici per conto loro, e sottotitoli in italiano che mal traducono scritte in italiano. Un polpettone così brutto da abbruttire anche i suoi interpreti migliori. D’altronde, l’entusiasmo comprato degli influencer faceva già presagire un certo senso di disagio.
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