Sotto forma di film, “Luther” non funziona
Tra tutti i polizieschi britannici che negli anni sono passati dai teleschermi, Luther è stato senz’altro uno dei più abili a privare del sonno i suoi spettatori. Il tratto distintivo e piacevolmente raccapricciante dei suoi pochi episodi era la fantasia dei serial killer di turno, intenti a sfidare il genio e i nervi di John Luther – l’imponente detective londinese interpretato da Idris Elba – con rituali, feticismi e sadismi inscenati con languida lentezza e una ferocia spettacolare. Per sviluppare Luther: Verso l’Inferno, il film di Netflix che ha riportato in vita la serie con ambizioni cinematografiche, il creatore Neil Cross deve aver pensato che bisognasse andarci ancora più pesante.
Visto il tempo brevissimo trascorso dall’ultimo episodio (viviamo in tempi così bui che la nostalgia s’accontenta ormai di tornare indietro di pochi anni), la storia riparte poco dopo gli eventi del finale del 2019, quando la quinta stagione sembrava aver chiuso l’intera serie, senza tuttavia confermarlo in maniera esplicita.
Per John Luther, invece, si sono aperte nel frattempo le porte del carcere: c’è da scontare la considerevole lista di effrazioni, manate intimidatorie e altri metodi poco etici per procurarsi prove che l’avevano portato a risolvere gloriosamente i suoi casi precedenti, facendola spesso franca grazie all’aiuto romantico di un’enigmatica criminale. A farsi malmenare da detenuti per niente amanti dei poliziotti, però, Luther ci resta poco. Là fuori si aggira ancora l’unico serial killer che non è riuscito a catturare, e perciò ecco presto trovato il modo per evadere, recuperare il suo cappotto di lana («Devi avere un bel cappotto, se vuoi fare il detective» ha detto di recente Idris Elba) e riprendere in mano le indagini, come al solito a modo suo.
Nella teoria – e qui iniziano un sacco di spoiler – l’idea del film è porre Luther al centro di un duplice intreccio generatore di tensione. Da un lato, il detective è ricercato dalla polizia, per ordine di una collega (interpretata da Cynthia Erivo) molto ligia al dovere e quindi poco propensa a collaborare con lui. Dall’altro, potendo affidarsi quasi solo al suo intuito, John Luther deve confrontarsi con la mente criminale più sadica e ambiziosa in cui si sia mai imbattuto. David Robey (Anthony Serkis) è infatti la somma di tutti i serial killer visti nelle stagioni precedenti: acchiappa le sue vittime dopo averne spiato le abitudini virtuali più o meno indicibili, le ricatta piegandole al proprio volere, e poi le porta al punto di uccidersi – da sole o a vicenda – per il piacere di un mucchio di guardoni connessi in streaming (un po’ Black Mirror, un po’ Squid Game, insomma).
Nella pratica, tuttavia, il film non raggiunge nemmeno lontanamente la densità narrativa che Luther aveva fatto vedere finora. Mentre Idris Elba corre, lotta, si ammacca e ogni tanto sosta furtivo per riflettere e ricucirsi le ferite in vicoli bui e ripari di fortuna, il suo nemico Anthony Serkis ride beffardo, indossa eleganti giacche di velluto, sperimenta i metodi di assassinio più sadici, colleziona corpi nel mare di Norvegia e si espone al mondo con un certo orgoglio (tanto indossa lenti a contatto, chi vuoi che lo riconosca?). Ma l’affanno, il dolore, il sadismo sembrano vuoti, se prima non si investe il tempo necessario a strutturare i personaggi, dare loro fantasmi e dimensioni emozionali. Preso dalla smania di inanellare caotiche scene d’azione, Luther: Verso l’Inferno non trova il tempo per farlo, pur avendo a disposizione oltre due ore.
Non si sa se Neil Cross abbia voluto (o dovuto) condensare in un lungometraggio l’intero contenuto di una potenziale nuova stagione. L’impressione però è che, sotto forma di film, lo stile della serie non sia affatto a suo agio. L’eroismo diventa meccanico e la violenza oscilla tra il ridicolo e il gratuito. Diventando troppo anche per Luther.
“Luther: Verso l’Inferno” è disponibile su Netflix e dura 2 ore e 10 minuti.
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