‘Lost in Space’, sventure di una serie (poco) spaziale
Basta giusto qualche fotogramma per cogliere come Netflix abbia scelto di rivisitare Lost in Space. Più cupa, decisamente meno bonaria e dal respiro epico. Della serie fantascientifica del 1965 rimane così solo la premessa iniziale. Una famiglia di pionieri spaziali che, nel viaggio verso un nuovo pianeta da colonizzare, finisce per perdersi a causa di un guasto alla propria navicella.
D’altronde, i tempi sono cambiati. Se l’originale – ambientato nel 1997 – allietava un decennio di fervente esplorazione in orbita e famiglie da cartellone pubblicitario, il suo reboot (o reinterpretazione) si allinea allo spirito di un’epoca tutt’altro che ottimista.
Dai volti dei protagonisti svanisce quindi l’entusiasmo patriottico. Nell’anno 2046, i nuovi Robinson si uniscono piuttosto alla spedizione per lasciarsi alle spalle una vita travagliata sul pianeta Terra – ormai vivibile solo indossando maschere antigas – e concedersi una seconda possibilità. Specie per quel che riguarda John e Maureen, non più ridenti coniugi amorevoli, ma coppia a un passo dal divorzio, con il vizio di manipolare i tre figli per rinfacciarsi a vicenda le assenze dell’uno e gli egoismi dell’altra.
Sotto la fredda crosta sci-fi, Lost in Space nasconde infatti il nucleo pulsante del family drama. Le disavventure che di episodio in episodio – in totale sono dieci – ne travolgono i tentativi di sopravvivenza, non sono altro che il pretesto per scrutarne l’impatto sui diversi gradi di relazione, tra marito e moglie, genitori e figli, fratelli e sorelle. Ognuno alle prese con le ansie comuni alla società moderna.
Nel ritracciare le dinamiche, comunque, la serie non perde del tutto i suoi tratti più leggeri. Senza rimpiangere il passato terrestre (“Devi chiamarla Terra. Non è più casa nostra” dice Maureen al piccolo Will) e pronta a perlustrare un pianeta sconosciuto – guarda caso perfettamente compatibile con le condizioni di vita umana (“È come vincere alla lotteria!” è l’eufemismo per lo sventurato atterraggio) – i Robinson sono la famiglia perfetta per un classico film d’avventura che guarda ad Alien e Viaggio al centro della terra, per citarne qualcuno.
Non c’è emergenza che non venga risolta, insomma, dalla rassicurante unione delle loro abilità complementari. James è un temerario veterano di guerra, le figlie Judy e Penny un futuro medico e una secchiona, l’ultimogenito Will può comunicare con una specie di robotici alieni, mentre Maureen è una risoluta ingegnere aerospaziale. La sua figura si emancipa dunque da quella di moglie premurosa, evolvendo insieme al personaggio del Dr. Smith, che assume ora sembianze femminili.
La maldestra antagonista interpretata da Parker Posey (nel ruolo che fu di Jonathan Harris) è una finta psicologa ostile alla spedizione, dalle cui azioni e reazioni dipende l’oscillare del racconto tra tensione e distensione. Ma è proprio osservandola che ci si rende conto del difetto che affligge la narrazione.
Lost in Space tenta infatti di rilanciare la metafora di un’insidia nascosta nelle relazioni con i propri simili, prima ancora che nell’incontro con la diversità. Per poterla rendere pregnante, però, occorre ben altro dosaggio di azione e profondità psicologica (quello egregio di The Walking Dead, ad esempio). Come i suoi eroi, la serie rimane invece sospesa tra i due mondi, limitandosi a smorzare il pathos e ad abbozzare soltanto le personalità protagoniste.
Le nuove vicende dei Robinson – tra solidarietà umana, sciagure e incontri paranormali – si riducono così a modesta rilettura dei cult del genere. Lasciandosi seguire, sì, ma con tiepido trasporto.
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