Le migliori serie tv del 2020
Qui a Tellyst ci sono due regole: le classifiche di fine anno non sono classifiche; e per farle si aspetta la fine – ma proprio la fine – di dicembre. Perché capita sempre che all’ultimo arrivi qualche titolo meritevole di infilarcisi dentro. Una delle migliori serie tv di quest’anno, per dire, è arrivata giusto qualche giorno prima che il 2020 si chiudesse. Così si è deciso di adottare – o meglio, di copiare – l’abitudine di fare tante piccole liste e poi riempirle man mano con le serie più meritevoli, quelle più strane, quelle sorprendenti, quelle non viste, le perdite di tempo, e via dicendo.
La lista è bella lunga, si avvisa. E nel caso foste molto pigri, basti sapere che il 2020 è stato un anno dove le serie tv migliori hanno avuto l’umiltà di stare sul semplice, mentre quelle peggiori hanno preteso un po’ troppo. Due in particolare lo hanno fatto più delle altre, perciò si sono distinte come il punto più alto e quello più basso dell’anno. Niente indizi, stavolta, se non che per trovarle bisogna andare in fondo in fondo.
Le migliori e le peggiori serie tv del 2020
Le strane avventure di una sera
Into the Night (Netflix)
Un aereo di linea quasi vuoto, un manipolo di passeggeri indisciplinati, e un dirottatore con un nome da centurione romano (Terenzio Matteo Gallo, per i curiosi) che tiene tutti sotto tiro con un mitra, perché in realtà vuole salvarli dai raggi del sole, che sono diventati letali, viaggiando senza sosta verso il buio. Se non è avventura strana questa…
Central Park (Apple TV+)
Mai una serie tv – animata, peraltro – si era impegnata così tanto per combinare tutto il detestabile possibile: ambientalisti dallo spirito oratoriale, malvagie vecchine milionarie, un menestrello che sbuca dai cespugli per cantare la loro storia. Mai, però, un musical con un ritmo di 5 canzoni (almeno) in mezz’ora di episodio era riuscito a rendersi tanto digeribile. Da inserire nei manuali di sceneggiatura alla voce “Metodi efficaci anti suicidio spettatoriale”.
On Becoming a God in Central Florida (TIMvision)
Capita spesso che le serie tv molto visionarie si prendano parecchio sul serio. Qui invece non c’è filosofia, se non quella di ridicolizzare al massimo i suoi personaggi grotteschi e ossessionati dalla vendita di carta igienica porta a porta. Peccato, davvero, che la pandemia l’abbia fatta finire tra le cancellazioni.
365 (Netflix)
Va bene, è un film. Ma è anche il prodigio più assurdo dell’anno: un porno soft italo-polacco, interpretato con la maestria recitativa di Piccolo grande amore, e con l’ignoranza bruta di chi ha vissuto gli ultimi due anni in uno sgabuzzino e non sa che ormai una storia dove un mafioso belloccio rapisce una straniera belloccia per farla innamorare di sé rischia il rogo. Spasso? Tanto. Polemiche? Nessuna.
The Third Day (Sky Atlantic HD)
Se mai sentiste il bisogno di stordirvi, lasciate che Jude Law assuma degli allucinogeni al posto vostro. Il viaggio è terribile, ma esteticamente impagabile.
Paranormal (Netflix)
Chi l’avrebbe mai detto, che da un horror egiziano fatto così così si potesse imparare un pezzo di storia letteraria e politica quasi sconosciuto?
Alice in Borderland (Netflix)
Una catena di escape room sempre più sadici, a metà tra un manga e un videogioco. Solo, bisogna sospendere parecchio l’incredulità.
Le perdite di tempo
Freud (Netflix)
Passi il Freud alternativo che se ne va in giro per Vienna offrendo bicchieri di acqua e cocaina e risolvendo macabri omicidi. Non però l’immotivata deriva esoterica e il sovraffollamento di personaggi, che creano un caos che nemmeno nel più squilibrato degli inconsci. Plauso invece – momento di scorrettezza campanilista – per la consolazione che le peggiori produzioni internazionali di Netflix non siano più soltanto italiane.
Control Z (Netflix)
La prova che è sempre meglio vedere e rivedere serie molto lungimiranti, piuttosto che dare una possibilità ai loro rifacimenti.
Valeria (Netflix)
Tutto quello che vent’anni fa sarebbe potuto accadere in un episodio di Sex and the City, ma spalmato su un’intera stagione e con un’orgogliosa convinzione di freschezza.
White Lines (Netflix)
Una di quelle serie che pensano basti assemblare scheletri (non solo nell’armadio), orge e cocaina per sembrare provocatorie e cattive. Non avesse scelto le coste di Ibiza come sfondo, uno ci avrebbe anche provato, a seguire i suoi misteri.
Space Force (Netflix)
Sembrava una specie di The Office stazione spaziale edition. Poi si è scoperto che mancavano elementi intelligenti per cui ridere.
Curon (Netflix)
Ha messo insieme un posto insolito, leggende antiche e usanze abbastanza inquietanti. Eppure l’unica paura che si è avvertita è stata quella dei suoi registi e sceneggiatori. Perché in Italia turbare il pubblico pare quasi un reato.
Quelle che non sembrava, e invece…
A Discovery of Witches (Sky Atlantic HD)
Ognuno scelga per quale strano sortilegio sia riuscita a sedurre anche gli scettici con una storia romantica di streghe e vampiri: la trama shakespeariana; le pornoimmagini di antiche librerie, canali veneziani e castelli finto-francesi; oppure – opzione più quotata – Matthew Goode che come al solito cosparge di fascino tutto, interpreti un sasso o un vampiro ultacentenario.
Mythic Quest (Apple TV+)
Non viene dallo stesso creatore di The Office, eppure le somiglia assai di più di Space Force.
Queen Sono (Netflix)
Perché dalle serie tv africane non si sapeva ancora cosa aspettarsi e questa serie l’ha messo bene in chiaro: una miniera di storie e culture così inedite da colmare anche la scarsità di budget e gli espedienti narrativi ormai consumati. Le produzioni italiane di Netflix al confronto sembrano pigre.
Doc – Nelle tue mani (Rai 1)
Fosse arrivato un messaggero dal futuro a dirci che un giorno ci saremmo appassionati a una fiction dei buoni sentimenti, lo avremmo rispedito indietro con un ghigno di superbia. Certo, la pandemia là fuori ha fatto il suo. Ma qualche incoraggiante tentativo di svecchiamento si è visto.
I favoriti di Mida (Netflix)
Non si sa bene dove si collochi il fascino di questo thriller con una passione – tipicamente spagnola – per i tira e molla sentimentali superflui. Resta il fatto che la sua storia di un ricco editore affannato dai ricatti di una setta segreta ha un potere altamente invischiante. Sarà, forse, che rispecchia in pieno l’invidia e l’egoismo sociale a cui nell’ultimo decennio ci siamo piegati.
Quelle lasciate a metà. Ok, solo qualcuna di quelle lasciate a metà
ZeroZeroZero (Sky Atlantic HD)
Probabilmente perché è capitata in un anno in cui di brutte storie proprio non se ne aveva voglia.
Amazing Stories (Apple TV+)
Un po’ meno inquietante di quella degli anni Ottanta. Forse le sue poche storie a sé stanti sono fatte più per gustarsene una ogni tanto.
Gangs of London (Sky Atlantic HD)
Non si sa bene il perché. Era intrigante.
Le migliori, davvero
I May Destroy You (BBC/HBO)
Perché ha preso la violenza sessuale, l’ha denudata dal velo della retorica vittimistica, e ha mostrato quanta confusione procuri, ma soprattutto da quanta confusione derivi. Perché insieme ai suoi protagonisti ci ha costretto a chiederci quante volte siamo stati abusati e abusanti, e nemmeno ce ne siamo accorti. Perché Michaela Coel ha una prepotenza fisica capace di mettere a disagio: fa ridere e si fa odiare, benché nessuna delle due cose dovrebbe essere la giusta risposta alle situazioni delicate che racconta.
Feel Good (Netflix)
È rimasta nascosta, ma non è poi tanto un peccato. Così il rapporto che si è creato con Mae Martin, stand-up comedian lesbica con un problema di dipendenza da qualsiasi cosa, è sembrato ancora più intimo.
The Mandalorian (Disney+)
In un mondo dove le serie tv di supereroi faticano a funzionare, è arrivata con la sua manciata di avventure spaziali altamente rassicuranti. È un western. È un procedurale. È un album di paesaggi nitidi con cui rifarsi gli occhi. Ed è anche l’esempio perfetto di come si rende una storia monetizzabile.
Playdate with Destiny (Disney+)
In cinque minuti di avventura muta e coloratissima, ha ricordato la ragione per cui I Simpson sono ancora una delle cose più lungimiranti che siano capitate alla tv.
SKAM Italia (TIMvision e Netflix)
In quattro brevi stagioni ha raddrizzato la percezione delle serie tv per adolescenti e dimostrato che anche in Italia, volendo, si può raggiungere la qualità con il più semplice degli strumenti: l’umiltà di mettere da parte il proprio punto di vista, per osservare bene la realtà.
We Are Who We Are (Sky Atlantic HD)
Come Chiamami col tuo nome, ma lunga il quadruplo. C’è la rara tenerezza con cui Luca Guadagnino guarda alle insicurezze dell’adolescenza. E c’è anche la sua fierezza nel mostrare agli americani il ritratto di un’Italia provinciale e sudaticcia, ma sempre dignitosa.
La regina degli scacchi (Netflix)
Qui si pensava che fosse la solita miniserie un po’ mediocre, spinta al massimo dal marketing truffaldino di Netflix. Invece è un capolavoro di dettagli e colori vintage, che se la prende con comodo e si muove con la stessa riflessività necessaria durante una partita di scacchi. A incrociare lo sguardo alieno e arguto di Beth Harmon (e cioè di Anya Taylor-Joy), ci si sente subito più intelligenti. Peccato sia solo percezione.
Romulus (Sky Atlantic HD)
Dieci ore di urla selvagge, istinti omicidi e crac di fratture ossee, attutiti dal rallentare sulla bellezza dei dettagli. Matteo Rovere ha intercettato la fissazione americana per l’azione grandiosa e coreografata, senza però tradire quella europea per l’arte cinematografica sottile e impegnata. Nella sua testa c’era già un progetto complesso e ben definito, e si vede. Per la prima volta, una serie tv italiana ha costruito un suo mondo (poco fuori dal Grande Raccordo Anulare, peraltro) e dato l’impressione di poter andare avanti a esplorarlo per molte, molte stagioni.
Quelle dolorose, ma ne è valsa la pena
Little America (Apple TV+)
Tante piccole storie di immigrazione che abbracciano un gran numero di persone. Perché il focus è sulla solitudine e sull’isolamento, si venga da un villaggio africano oppure da Parigi.
Stateless (Netflix)
Ha capito che per far comprendere quanto possa essere deumanizzante il trattamento dei profughi non bisogna tanto raccontarne le storie, quanto smantellare l’idea del “A me non potrebbe mai succedere”. Perché se in un campo profughi ci finisce una hostess bionda, bianca e benestante, l’immedesimazione si attiva subito. Ancora di più se la storia è vera.
No Man’s Land (Starzplay)
Grazie al metodo qui sopra (parigino incamiciato che si ritrova in Siria sotto i razzi lanciati dall’ISIS), la guerra civile siriana è sembrata per una volta vicina. Il problema è che qualcuno ha pensato dovesse avere velleità documentaristiche.
Quelle buone, ma non perfette. Che poi cos’è la perfezione? Nessuno è perfetto!
Suburra (Netflix)
Non fosse stata una pandemia in corso, forse avrebbe concluso la sua storia con più calma. Ma la si ringrazia per averci dato almeno una produzione italiana di Netflix della quale andar fieri. Sciogliendo il classico machismo crime in una sofferta storia d’amore, peraltro.
Unorthodox (Netflix)
La fuga di Esty (Shira Haas) dal quartiere ebreo ultraortodosso di New York ha intercettato la voglia di libertà e lieto fine della prima parte di pandemia (quella in cui si disegnavano arcobaleni e si percuoteva pentolame dai balconi). In più – siamo onesti – si è immaginata un’Europa salvatrice e dalla multiculturalità idilliaca un po’ ridicola. Però la parte thriller funziona assai bene. E benché l’attenzione della critica si sia focalizzata solo sulla protagonista, a tenerla in piedi sono le paure dei personaggi maschili.
Snowpiercer (Netflix)
Una delle poche serie seriose recenti ad aver lasciato la voglia di andare all’episodio successivo.
The Woods (Netflix)
Una delle tante serie sviluppate su un mistero spalmato su vent’anni di storia. Eppure si sta lì a guardarla tutta.
Ted Lasso (Apple TV+)
Nulla di speciale, in realtà. Ma il suo protagonista, un allenatore di calcio che è incopetente e non se ne vanta, ha una carica di sentimenti buoni e ingenui da far venire il dubbio – almeno per qualche ora – che la cattiveria si spenga davvero con la gentilezza.
L’Alligatore (Rai 2)
Sempre sia lodato zio Beniamino, portatore sano di zazzera lucida, baffetti tinti di mascara e borbottii in milanese che prima minacciano i criminali facendoli pisciare addosso e poi si lamentano per lo sporco.
Divertenti!
Sex Education (Netflix)
Ha pure anticipato l’isteria di massa della pandemia. Cosa volere di più?
Indomite (RaiPlay)
Come rendere il femminismo digeribile.
Criminal UK (Netflix)
Che poi divertente non è. Ma cercare di smascherare dei criminali chiusi in una stanza solo studiandone le microespressioni è un bel gioco.
Bridgerton (Netflix)
Una delizia di intrecci telenovelici e gradevolmente superficiali, dove il colore della pelle è accessorio quanto quello degli arredi. Peccato che i giornali l’abbiano fatta più pedante di quanto non fosse.
Quelle che sono piaciute agli altri, ma non a Tellyst
La casa di carta (Netflix)
Da qui non si muove nemmeno quest’anno: posto già prenotato anche per il 2021.
Diavoli (Sky Atlantic HD)
Troppa freddezza ha raggelato anche la voglia di seguirla.
Afterlife 2 (Netflix)
Peccato, peccato, peccato.
Euphoria – Speciale (Sky Atlantic HD)
L’idea dell’episodio bottiglia basato solo su una chiacchierata in una tavola calda regge per la prima mezz’ora, poi diventa pesantuccia.
Quelle che sono piaciute a Tellyst, ma non agli altri
Hunters (Prime Video)
Finché gli altri penseranno che ci sia una e una sola maniera di raccontare i sadismi del nazismo. E finché si pretenderà dalle serie tv di finzione di spacciarsi per documentari.
Westworld 3 (Sky Atlantic HD)
Per una volta ci si è capito qualcosa. (Ma il problema molto probabilmente non era suo.)
Homecoming 2 (Prime Video)
Perché era difficile proseguire senza Sam Esmail e Julia Roberts, e ci è riuscita dignitosamente.
Quelle che avremmo dovuto recuperare per farcene un’opinione
Dark (Netflix)
Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.
Ramy (Starzplay)
Urge rimediare.
The Crown 4 (Netflix)
Qui si è ancora rimasti ai tempi di Churchill, fate voi…
Quelle detestabili, ma proprio tanto
Luna Nera (Netflix)
Come si fa a pensare di dare uno slancio alla serialità italiana, con una scenografia che trasmette la stessa autenticità di quella di Fantaghirò?
Hollywood (Netflix)
Come si fa a non etichettare i personaggi per il colore della loro pelle, se ogni due battute si autocommiserano per il colore della loro pelle?
The Undoing (Sky Atlantic HD)
Come si fa a prendere sul serio una specie di thriller, se i suoi protagonisti hanno la risibile capacità di fare sempre e comunque la scelta più stupida e sbagliata?
Quelle che avremmo visto (o finito di vedere) se non avessimo perso tempo con quelle di prima
The Eddy (Netflix)
Le sessioni parigine di jazz davano ai suoi elementi già visti e rivisti una raffinatezza particolare. E chissà che dopo qualche episodio non si sia fatta anche più sorprendente.
The Great (Starzplay)
Il rimpianto dell’anno, mannaggia a Ryan Murphy lassù.
Dispatches from Elsewhere (Prime Video)
Ok, forse qui c’è un concorso di colpa con i bisticci tra le due memorie: quella a breve termine l’aveva segnata nella lista delle cose da vedere; quella a lungo termine se l’è serenamente scordata.
High Fidelity (Starzplay)
La cancellazione brutale (perché piuttosto inattesa) è comunque un indizio che non sarebbe stato tempo impiegato meglio.
La migliore di tutte
Normal People (Starzplay)
Una creatura così perfetta che non si dovrebbe aggiungere altro. Come ha fatto lei, che ha preso le pagine del romanzo e si è limitata a tradurle in immagini, mantenendo intatto il disprezzo per il superfluo che Sally Rooney emana anche senza parlare. Tutto, nella storia d’amore tra Connell e Marianne, ha preso forma con le stesse esatte sembianze che aveva nella nostra mente dopo aver letto il libro. Perché non c’è niente, nella scrittura di Rooney, che non sia stato selezionato con cura dall’esperienza vissuta dell’essere millennial. L’unica differenza l’ha fatta il calore: quello con cui la serie ha avvolto la freddezza chirurgica di Rooney, quello fatto di inquadrature strettissime sulle nevrosi corporee e sulla bellezza imperfetta – e per questo inarrivabile – dei suoi due protagonisti. In questa serie non accade praticamente nulla, eppure sembra fatta di una sostanza assuefacente.
La peggiore in assoluto
Summertime (Netflix)
I motivi sono tanti, e il bello è che per trovarli tutti basta un fotogramma. Per farla breve, comunque, il sommo problema è che ha davvero pensato di poter spopolare nell’epoca d’oro delle serie tv per adolescenti con una storia ispirata a Tre metri sopra il cielo, recitata come Tre metri sopra il cielo, incosistente come Tre metri sopra il cielo, spazzandola sotto una fotografia caruccia. È più difficile capire invece se l’idea sia stata figlia della pigrizia oppure del serio crederci dei creatori. In ogni caso, è stata decisamente il punto più basso della serialità e pure della critica italiana. Perché nonostante non sembrasse decente nemmeno dai trailer di Netflix (che spesso sono una truffa, ma funzionano), i giornali hanno forzato elogi con l’enfasi di chi l’adolescenza non l’ha vissuta e adesso se la sogna idealizzandola. Gli adolescenti veri, intanto, se ne stavano sui social a percularla.