Il fascino occulto di ‘Il Miracolo’
Dal primo assaggio de Il Miracolo, risale per la gola un retrogusto ferroso.
Sarà forse la vista scivolosa dei litri di sangue che, nascosta nel bunker di un boss, una qualsiasi Madonnina di plastica piange senza sosta. Sangue umano, per davvero, con valori ematici che variano di continuo, come se “da qualche parte ci fosse una persona che mangia, digerisce. Come se fosse viva”.
Sarà anche, poi, la vista dei frammenti che pian piano si scrostano dalle pareti di un Paese rugginoso, rivelando gli equilibri precari che ne popolano le certezze politiche, religiose, psicologiche.
Certezze che potrebbero sgretolarsi in un colpo solo, al semplice palesarsi della prodigiosa statuina alla luce del sole. Meglio allora tenerla custodita in una grigia rimessa sotterranea, nell’attesa di venire a capo dell’arcano, limitandosi a sovvertire le vite dei pochi autorizzati a entravi in contatto.
Proprio di loro racconta Niccolò Ammaniti, showrunner di una produzione originale Sky che – scansando diverse aspettative – ha poco a che vedere con la classica riproposizione delle tematiche più care alla serialità italiana. Malavita e contraddizioni delle sfere amministrative ed ecclesiastiche, ovvero. Zona di comfort qui in patria, con buone probabilità di compiacere la propensione straniera al luogo comune.
Insieme alla triade Francesca Manieri, Francesca Marciano e Stefano Bises, l’autore ha infatti plasmato una qualità di scrittura assai pregiata. Sottile nell’insinuarsi negli ingranaggi della psiche umana, arguta nel restituire un intreccio di storie ben poco decifrabile, e per questo parecchio affascinante.
Nel nucleo della narrazione si impone vivido il miracolo. Soprannaturale ma tangibile, divino ma inquietante, segno salvifico eppure rivelazione conturbante. Pronto a riaprire le danze della frustrante ricerca esistenziale, riattivando la lotta tra i meccanismi di difesa più disparati e il doloroso riaffiorare di fantasmi.
A partire da quelli di Fabrizio, premier di rara solidità e uomo laico e razionale, diviso tra uno spinoso referendum e un matrimonio vacillante con l’eccentrica Sole, turbata dal senso di inadeguatezza come madre e first lady. Un po’ come Sandra, ematologa omosessuale, mente scientifica e cuore appigliato alla speranza che sua madre, ormai ridotta a un vegetale, possa ancora guarire. Oppure Marcello, parroco di periferia ed ex missionario, in completa balia di violenti impulsi irosi, sessuali, affamati di gioco d’azzardo. Tutto il contrario cioè del Generale Votta, in cerca della spiritualità, ma prima ancora ligio al dovere di garantire al Paese sicurezza.
Animato da interpreti validi – rapisce la forza di Tommaso Ragno ed Elena Lietti – il mutare delle loro esistenze è la sintesi del moderno reagire umano ai limiti (o non limiti) del comprensibile, della fede, della scienza, della vita, della morte.
Il Miracolo è insomma un labirinto di domande pulsanti, esplorate senza concedere il minimo lusso di prevederne le risposte.
Ammaniti riesce infatti nell’intento di rimpolpare con costanza una sana dose di mistero, guidando un valzer di generi e sensazioni contrastanti. Dramma e grottesco virano di continuo l’uno verso l’altro, in un susseguirsi brusco di sgomento, paradosso, misticismo ed esoterismo. Così, il volto serafico della Madonnina pare quasi diabolico, la calma della foresta inghiotte, la Roma maestosa trasuda decadenza. Tutto sembra nascondere un’aura stregata, capace di attrarre lo sguardo (anche dei protagonisti stessi) tra curiosità e orrore.
Affresco di un realismo magico televisivo di rado visto da queste parti. Un miracolo – per farsi spudoratamente banali – della nuova serialità italiana.