‘Homecoming’, paranoia dal fascino retrò
Se c’è un talento che Sam Esmail sa padroneggiare con infallibile efficacia, è l’arte del creare un senso diffuso di paranoia. Lo ha dimostrato bene in Mr. Robot. E lo ha confermato in Homecoming, appena comparsa nella libreria virtuale di Amazon Prime Video.
Paranoici sono i personaggi che la sua macchina da presa rincorre mentre si affannano a capire se la continua sensazione di pericolo che li tormenta sia percezione concreta oppure frutto di feroci proiezioni mentali. Paranoico diventa così, per effetto collaterale, anche lo sguardo attento di chi li segue, chiedendosi se l’apprensione per le loro sorti sia reazione giustificata o invece semplice prodotto delle ore di thriller già all’attivo.
Si finisce, dunque, per stare costantemente all’erta. Perché se al sadismo del racconto non si è mai abbastanza preparati, figuriamoci ai volubili scherzi della mente.
Di preciso, questa nuova breve serie – lunga circa dieci mezz’ore – ha a che fare con i solchi del disturbo post traumatico da stress e con i buchi neri di amnesie sospette. Dei primi – ormai gettonatissimi – intende occuparsi Homecoming, un centro riabilitativo segreto, in cui giovani veterani di guerra si sottopongono a una terapia sperimentale che li aiuti a reinserirsi nella comunità. I secondi appartengono invece a Heidi Bergman (Julia Roberts), che proprio non ricorda come sia passata dalla vita di terapeuta in una struttura governativa a quella di cameriera in una squallida tavola calda affacciata sul porto.
La sua storia è quindi doppiamente doppia. C’è il presente del 2018 e il futuro del 2022, ma in entrambe le dimensioni c’è quel che è diventata e quel che invece la sua memoria ha sepolto. Di conseguenza, ciò che gradualmente si disvela in un tempo genera la suspense per ciò possa accadere nell’altro, e viceversa.
Questa volta, però, Sam Esmail non figura come creatore né sceneggiatore della serie – ideata come podcast da Eli Horowitz e Micah Bloomberg, e da loro stessi riadattata. Il suo tocco ansiogeno è tutta una questione di stile. O meglio, di forma.
Si gioca con le proporzioni – ridotte a un claustrofobico quadrato per incorniciare il futuro e ampliate a schermo largo nel presente – e pure con le convenzioni del binge watching (arduo cliccare sull’episodio successivo quando le immagini, pur superflue e silenziose, scorrono ancora). Ma soprattutto si gioca con un mito, quello di Alfred Hitchcock, richiamato con sfrontata insistenza.
Homecoming è infatti un labirinto di facciate a specchio, strade fotocopia, spirali di scale. L’enfasi narrativa è scandita dall’alternarsi di rumore (il fischio dei timpani, il rombare ovattato) e sonoro orchestrale (i violini armoniosi e un attimo dopo stridenti). Le scene prolisse si concedono il vezzo del dettaglio simbolico, la tensione quello invece dell’ironia. Il manierismo spudorato, infine, non si fa certo mancare una sorta di “Effetto Vertigo”.
Proprio come già visto in Maniac – dove tuttavia il trauma si elabora, non si sradica – le alienanti tematiche dell’attualità prendono vita in un futuro quasi straniante (ma non disturbante), tratteggiato con semplicità retrò.
A catturare davvero, è la dissonanza gradevole di un thriller moderno dal fascino d’altri tempi. Oltre, naturalmente, a una Julia Roberts di bravura magnetica in un ensemble d’eccezione.