Perché continuiamo a guardare “Friends”
Nel 1993 la rete NBC si mise alla ricerca di una nuova sitcom che replicasse lo stesso, apprezzatissimo stile di Seinfeld. Cioè una serie comica su un gruppo di amici newyorkesi dall’aspetto buffo e dai caratteri volubili, cinici e misantropi. Gli sceneggiatori Marta Kauffman e David Crane proposero però un’idea un po’ diversa. I sei protagonisti di Insomnia Nights – questo era il titolo – erano fotogenici, poco disfunzionali e soprattutto amavano stare insieme. Perché il vero collante degli episodi non era tanto l’assurdità divertente delle situazioni che vivevano, quanto l’amicizia solida che permetteva loro di affrontarle e uscirne fuori.
Circa un anno più tardi, la serie andò in onda con il titolo di Friends ed ebbe un successo portentoso. In un decennio accumulò 236 episodi (solo pochi in meno di quelli del Trono di Spade, House of Cards e Orange Is the New Black sommati, per intenderci) e una media costante di 25-30 milioni di spettatori a settimana. Ma il fatto davvero curioso è che, anche dopo la sua fine, Friends abbia continuato a ingrandire il suo seguito. Tanto che ad attendere la reunion dei suoi interpreti su HBO Max (in Italia il 27 maggio su Sky Atlantic e Now TV) c’erano persone di ogni paese e generazione.
Qualcuno dice che Friends è stata la prima sitcom aspirazionale. Ossia la prima sitcom capace di suscitare nel pubblico un forte desiderio di avere la stessa vita dei protagonisti. Qualcun altro ha individuato la ragione del suo successo nella comicità brillante degli episodi. Eppure, a guardarla bene, Friends è una serie tutt’altro che raffinata e i suoi personaggi hanno una vita ben poco invidiabile. Quel che davvero le ha permesso di attrarre un pubblico così ampio e diverso sta più a fondo, nella scelta di legarla non a un momento storico, bensì a un momento di vita comune a tutti: il faticoso passaggio all’indipendenza dell’età adulta.

Siamo davvero sicuri di voler invidiare i ragazzi di ‘Friends’?
Quando Kauffman e Crane sviarono dalle aspettative di NBC, colsero il punto: il pubblico non avrebbe riso dei protagonisti, ma avrebbe voluto essere come loro. E questo benché la loro amicizia nascesse più dal bisogno di mettere una pezza alla propria solitudine. Se i ragazzi di Friends si ritrovano a convivere in due appartamenti nel Greenwich Village di New York (lo stesso quartiere modaiolo dove vive Carrie di Sex and the City, per capirci), non è per inseguire chissà quali aspirazioni di vita, ma per fuggire da genitori abbastanza disastrosi.
Per farsene una rapida idea, le stranezze di Phoebe sono il frutto dei traumi procurati dall’abbandono del padre e dal suicidio della madre. Dietro le nevrosi e la passata obesità di Monica c’è la rabbia nei confronti dei genitori, che preferiscono spudoratamente il fratello Ross. Poi ci sono la viziata Rachel e l’ingenuo Joey, alle prese con divorzi e tradimenti di famiglia. E infine c’è Chandler, che è abituato a reprimere le emozioni nell’umorismo da quando aveva 9 anni e i genitori scelsero la cena del Ringraziamento per annunciare il proprio divorzio. Ah, per completare il quadro, nel corso della serie Chandler scopre che nel frattempo suo padre è diventato una donna.
Le famiglie dei personaggi di Friends, insomma, sono caotiche e per niente affidabili. Perciò, arrivati a vent’anni e senza un punto di riferimento che li accompagni nell’età adulta, ai protagonisti non rimane altro che fare affidamento sugli amici. «Questa non era la prima scelta per nessuno,» dice Joey durante la prima di una lunga serie di cene del Ringranziamento, pranzi di Natale, compleanni, e altre ricorrenze cruciali trascorse insieme dal gruppo. Senza considerare gli interventi di reciproco supporto nei momenti di incertezza finanziaria e frustrazione sentimentale.
Anziché la tristezza della situazione, gli sceneggiatori furono tuttavia in grado trasmetterne agli spettatori il risvolto positivo. «Stai diventando adulto, hai problemi con i tuoi genitori, e ti rivolgi agli amici. È un tema universale,» ha scritto BBC. E siccome nella vita reale davvero in pochi possono (o hanno potuto) contare su un simile gruppo di amici, il legame tra i protagonisti di Friends è diventato desiderabile.

La familiarità di ‘Friends’
In questo senso, Friends non ha fatto altro che riprendere la caratteristica forse più tipica del genere a cui appartiene. «La familiarità è la calamita di ogni sitcom americana che si rispetti,» ha spiegato il New York Times. Del resto, si tratta di un genere costruito per accogliere il pubblico e farlo sentire sempre parte della quotidianità dei personaggi e delle loro esperienze, non importa quanti episodi si sia perso nel mezzo.
Friends però ha portato in tv un tipo di familiarità diversa, resa calda e armonica dal rapporto paritario tra i protagonisti. E difficile da trovare anche nelle serie che, dopo la sua fine nel 2004, hanno tentato di replicarne lo stile. Proviamo a pensare ad altre sitcom molto famose: quasi tutte hanno un gruppo molto coeso di protagonisti, ma per distinguersi e far ridere hanno dovuto collocare un accento in più su tensioni, stranezze, problemi, traumi, spesso dando la priorità al percorso di vita di un singolo personaggio. The Big Bang Theory è un raduno di giovani nerd dall’aspetto grottesco e socialmente inetti; New Girl si basa perlopiù sull’eccentricità della sua protagonista; e anche How I Met Your Mother, spesso paragonata a Friends, ha legato il senso della sua storia ai trascorsi sentimentali di un personaggio in particolare.
Friends invece no. Per scelta di Kauffman e Crane (e perplessità iniziale di NBC), la serie si svolge in un ambiente dove nulla è mai troppo drammatico, folle o stridente. Le caratteristiche dei protagonisti – perfino le loro isterie – sono tutte addolcite e armonizzate. Il risultato è che nessuno spicca sugli altri: tutti danno lo stesso apporto alla serie. Ma soprattutto, episodio dopo episodio, si rafforza la sensazione tranquillizzante che nessuna situazione e nessun difetto, per quanto estremi o detestabili, possano davvero distaccarti dall’amore e dal supporto dei tuoi migliori amici.

La semplicità di ‘Friends’
Il fatto che Friends abbia scelto di raccontare un mondo così ideale e positivo è una delle cose che vengono più spesso contestate alla serie. Il suo modo estreamamente elementare di affrontare ogni tema – anche quelli più delicati – agli occhi di molti è diventato sempre più anacronistico. C’è chi considera i metodi di abbordaggio di Joey o le battute sulla mascolinità dei ragazzi – consumatori di maschere idratanti – ormai fuori luogo, specie se vista l’ossessione per l’inclusività della serialità moderna. E c’è chi aggiunge che la serie non sia dotata di una comicità così raffinata da giustificarne la visione. La presunta arretratezza di serie come Seinfeld o la scorrettezza di altre come I Simpson vengono infatti spesso attenuate dalla genialità. I loro episodi sono un brillante susseguirsi di com (comicità, cioè) che viene innescata dalla sit (che sta per situazione assurda).
La principale preoccupazione di Friends invece è parlare di amicizia. Il suo patto con il pubblico sta nella promessa di trovare in ogni episodio uno spazio confortevole dove sentirsi il settimo componente del gruppo. E quando ci si trova in un gruppo molto intimo di amici, si sa, non ci si deve nemmeno preoccupare del livello delle battute. Il che per buona parte dei suoi spettatori attuali è una grande boccata d’aria dai dibattiti del periodo.
Sarebbe comunque riduttivo e poco corretto non riconoscere che, per quanto semplice, Friends fu il frutto di un attento lavoro di scrittura, regia e recitazione. Soprattutto se si considera l’epoca in cui andò in onda, dove le sitcom erano uno genere didascalico e piuttosto anti-cinematografico legato alle richieste dei pubblicitari. «Friends era tv semplice, ma al suo massimo livello,» ha scritto il New York Times. «Tante battute, parecchia comicità fisica, molte sorprese e oooh, e le urla di eccitazione del pubblico in studio». Milioni di americani e altrettanti milioni di spettatori nel mondo la seguirono per un decennio senza quasi rendersi conto della sua complessità produttiva. Vederla significava rifugiarsi per un po’ di minuti in un’oasi tranquilla, non fare sforzi, eppure uscirne appagati.

L’universalità di ‘Friends’
Ancora oggi questa popolarità è rimasta pressoché intatta. Certo, è difficile che – come accadeva allora – qualcuno si presenti dal parrucchiere con la foto di Rachel. E le caffetterie non hanno certo bisogno dei suoi episodi per essere considerati ritrovi in voga. Ma per il resto Friends ha mantenuto la sua capacità di intercettare i bisogni e le emozioni del pubblico.
Qualche anno fa, un articolo piuttosto critico di Vice accusò la serie di essere fin troppo vecchia. «I personaggi vivono nella New York di metà anni Novanta. Eppure questi venti-e-qualcosa-enni che lavorano nella moda, in tv e in ristoranti di tendenza sono culturalmente confinati al rock radiofonico, Die Hard e qualche gag sulla passione di Chandler per i musical». Secondo l’articolo, i ragazzi di Friends avrebbero dovuto essere l’invidiabile incarnazione dei giovani sexy e metropolitani. Ma in realtà erano così poco coinvolti dal mondo attorno a loro, da avere praticamente le stesse abitudini di vita di un genitore qualsiasi.
Proprio qui però si annida la ragione della longevità di Friends: nel suo essere una sitcom quasi sospesa nel tempo. I suoi creatori, all’epoca quarantenni, non erano interessati a riprodurre uno specchio fedele di quel periodo. Pur coinvolgendo autori più giovani, il loro sguardo permise ai personaggi di non cristallizzarsi o invecchiare. Friends è la sintesi di quel periodo, nella vita di ognuno, in cui le incertezze esistenziali si affollano e i buoni amici – anche solo uno – significano tutto. «Si tratta di un’epoca che non è negli anni Novanta,» ha scritto NBC. «È un’epoca nella nostra vita, e questo la rende così forte».