Che fine ha fatto l’altra “Feud”?
Piccola postilla prima di iniziare: questa recensione si basa sui primi sei episodi di “Feud: Capote vs. The Swans”.
A far pettegolezzo son capaci tutti, ma saper farne un mestiere è arte di pochi. Lo sa bene Ryan Murphy, che sul biforcuto chiacchiericcio dei suoi personaggi ha costruito un fruttuoso universo di costose fiction hollywoodiane (il più fruttuoso, forse, insieme a quello di Shonda Rhimes). E lo sapeva bene anche Truman Capote, che raccontando i fatti degli altri si ritagliò stralci prestigiosi nella letteratura americana del secolo scorso, fossero macabri omicidi o i panni sporchi di figure patinatissime. Immaginarsi, quindi, il potenziale di una stagione di Feud dove Murphy racconta Capote.
Per chi avesse la memoria corta – vi si capisce, visti questi tempi di bulimia televisiva – Feud è quella serie antologica che in ogni stagione si focalizza su un diverso, leggendario screzio tra celebrità di un certo calibro. È l’unica opera non pruriginosa di Ryan Murphy, forse perché anche l’unica dove traumi e diversità non sono motivo di vittimistica lamentela: in Feud le vulnerabilità si nascondono con ogni grado di ferocia. Non dev’essere quindi un caso che la serie abbia rischiato di farsi cancellare. Dopo un’eccelsa prima stagione su come Bette Davis e Joan Crawford se ne fecero di ogni sul set di Che fine ha fatto Baby Jane?, uscita nel 2017, Murphy ha tentennato, avanzato e poi stracciato un’idea su Buckingham Palace (meno male, che noia), e per cinque anni ha silenziato ogni aggiornamento. Poi d’improvviso l’annuncio: Feud avrebbe portato in tv un illustre scisma passato alle cronache dell’élite newyorkese.
Con qualche mese di ritardo rispetto agli Stati Uniti, Feud: Capote vs. The Swans è appena arrivata su Disney+ con la storia di quella volta che Truman Capote fece arrabbiare un gruppo di ricchissime socialite, rivelandone i segreti in un libro, Preghiere esaudite, che mai finì di scrivere.
Siamo negli anni Settanta, Capote ha pubblicato A sangue freddo da un decennio (amici del true crime, si dice che da lì sia partito tutto), la sua faccia è ovunque ed è a turno l’ospite o l’anfitrione che l’alta New York si contende. Ma soprattutto, Capote (nella serie Tom Hollander, lo zio inglese di The White Lotus) s’è guadagnato un posto fisso al tavolo più amato – o odiato, dipende dal grado di status – del rinomato La Côte Basque. Con lui c’è l’ormai migliore amica Babe Paley (Naomi Watts, regale e tristissima), perfetta moglie di Bill, potente capo di CBS. E ci sono anche Slim Keith (Diane Lane), velenosa e acuta; C.Z. Guest (Chloë Sevigny), silenziosa e affatto influenzabile; Lee Radziwill (Calista Flockhart), rettiliana e oscurata sorella di Jaqueline Kennedy.
Per loro Capote è l’amico gay, l’amuleto contro la solitudine, quello che buffoneggia alle feste, quello da chiamare quando tuo marito ti cornifica e non sai se divorziare o mandar giù tranquillanti e tenerti stretti i privilegi materiali. Lui le chiama «i miei cigni», una fila ordinata di icone di stile da ammansire nutrendole con sordidi pettegolezzi. Ma per Capote non c’è relazione che non sia un attento studio sociale, una raccolta di materiale da rigiocarsi. Anche perché, sotto all’eleganza del portamento e al candore del piumaggio, ci sono zampe che faticano il doppio poter per stare a galla. Le dame del Côte Basque nascondono tresche umilianti, cicatrici di ritocchi estetici, e anche qualche pallottola vagante. Così, quando Capote li pubblica su Esquire in un’anteprima del suo libro, senza troppo sforzarsi di camuffare luoghi e volti, i cigni votano di punirlo con l’esilio dai circoli che contano.
In un avanti e indietro di linee temporali, Feud tenta di replicare quello che con Bette e Joan le era riuscito benissimo: mostrare la disperazione sotto la furia. Gli ultimi anni di Capote sono una discesa sempre più veloce in un’autostruzione fatta di sbronze e relazioni degradanti. I tentativi di redenzione non reggono davanti al bisogno d’estremizzare l’egoismo, la stravaganza con cui ha sempre protetto il bambino mai visto che è stato. (La madre, aggressiva e suicida, che gli appare in allucinazione è interpretata da Jessica Lange). Dall’altro lato, mentre Babe fa i conti con la malattia e il perdono, i cigni non riescono mai davvero a tenere fede al proprio patto.
In Feud, insomma, ci sono le contraddizioni di una natura umana che non può fare a meno di ferire o tornare da chi l’ha ferita, soprattutto quando la scoperta della mortalità fa sentire rimpiccioliti. Come al solito, Murphy le contorna di scorci bellissimi di passato, feste a porte chiuse ormai ignote all’ineleganza dei giorni nostri, calici di vino e sigarette maneggiati con una classe rilassante, scene – o interi episodi – che oscillano tra l’onirico e il reale, guidate dalla regia di Gus Van Sant.
Per quanti buoni momenti ci siano, però, si ha l’impressione che le cose che non funzionano siano di più. La nuova Feud è un agglomerato di salti nel tempo che disorientano, di scene che esasperano i vezzi esperanti dei suoi personaggi fino alla ripetizione. Più che equilibrare la lacuna, infatti, la qualità degli interpreti la acuisce. Mentre Holland è bravissimo a non ridurre l’eccentricità di Capote a caricatura, le controparti femminili lasciano trapelare ben più dimensioni di quelle cui Murphy conceda di accedere. Come spesso accade ultimamente, Capote vs. The Swans è un progetto di lusso – nella premessa, negli interpreti, nelle immagini – ma dal potenziale incompiuto. La tensione drammatica, gli sgarbi infidi, e disperati, e infatili, che avevano incendiato la prima stagione, qui restano annacquati nel melodramma. La faida è troppo flebile per poter svilupparsi davvero. Ingabbiata nell’apparenza, al pari dei suoi cigni, Feud non riesce a spiccare il volo.
“Feud: Truman vs. Capote” esce il 15 maggio su Disney+ ed è composta da 8 episodi lunghi 46-60 minuti. Tutti gli episodi sono disponibili da subito
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