Perché ‘Doc’ è piaciuta così tanto
Se un anno fa un messaggero dal futuro fosse venuto a dirci che ci saremmo appassionati a una fiction di sospiri e buoni sentimenti gli avremmo riso in faccia. E probabilmente avremmo avuto ragione. Solo che un anno fa non avremmo mai immaginato di poter incappare in una pandemia. Ancor meno, poi, che la suddetta pandemia avrebbe potuto capovolgere il nostro rapporto con la tv. Da quando il coronavirus si è palesato, infatti, le serie abbiamo iniziato a sceglierle prima di tutto per conforto. Il che ci ha portato a seguire con smodato trasporto cose che prima avremmo guardato con molto cinismo. È abbastanza probabile, insomma, che una cosa come Doc – Nelle tue mani l’avremmo abbandonata in molti dopo un episodio o due. Invece è finita per mantenere una media di 7 milioni di spettatori a puntata (molto più dell’Amica Geniale, per capirci).
Doc – per chi oltre a chiudersi in casa si fosse esiliato in cantina – è una fiction di Rai 1 ambientata all’interno di un ospedale milanese. Il suo protagonista è il dottor Andrea Fanti (un ingrigito Luca Argentero), un primario che finisce in coma per un colpo di pistola sparato dal padre di un suo giovane paziente, morto per errore medico. Al suo risveglio Fanti non ricorda più niente. O meglio, si ricorda di una vita precedente: quella prima di perdere un figlio, divorziare e diventare un medico tutt’altro che godibile.
Mentre Fanti cerca di rimettere insieme i pezzi e soprattutto rimediare al fatto che nessuno lo sopportasse, la serie segue una manciata di casi medici a episodio. Doc infatti è un miscuglio di quei procedurali ospedalieri assurdi ma credibili che gli americani esportano da anni e che la tv italiana non aveva mai prodotto.
La prima metà della serie è andata in onda a fine marzo, nel pieno della prima ondata della pandemia di COVID-19. Poi il blocco delle produzioni ha costretto Rai Fiction e Lux Vide a interrompere le riprese, riavviarle in estate e mandare in onda gli episodi restanti in autunno. Nonostante la lunga pausa, Doc ha mantenuto un seguito piuttosto costante.
Il merito è in parte dello sforzo visibile e apprezzabile di discostarsi dai vizi delle fiction precedenti. Al netto dei paternalismi e degli inciampi di recitazione (è pur sempre figlia di Un medico in famiglia e La dottoressa Giò, ricordiamolo) Doc ha un un’evidente cura di movenze, dettagli, inquadrature. Le sue storie sono state svecchiate, così come il linguaggio che le racconta. Inoltre la regia dinamica di Jan Maria Michelini e Ciro Visco le rende tridimensionali e abbastanza credibili.
Eppure c’è qualcosa, nella sua capacità di coinvolgere, che senza la pandemia Doc non avrebbe generato.
Quel qualcosa viene prima di tutto dal tempismo. Doc è capitata in un momento in cui la televisione ha ristabilito in parte la sua funzione aggregativa. Quella cioè che in passato ha consentito a molte serie tv di diventare di culto non solo per la loro qualità, ma anche per il piacere amplificato del vederle di settimana in settimana, nello stesso tempo (anche se a distanza), per poi discuterne insieme.
Doc non si è intrecciata solo alle nostre vite, però. Il suo punto di forza è stato rispondere al nostro bisogno di vedere i problemi della vita risolversi.
Questa funzione il genere procedurale un po’ l’ha sempre avuta. Seguire professionisti dediti e geniali trovare soluzioni a situazioni al limite dell’irrisolvibile è sempre stato il suo elemento appagante. In un momento di simile sforzo e preoccupazione come quello della pandemia si è rafforzato. Se prima avremmo riso delle conclusioni di episodio liete e zuccherose di Doc, il coronavirus le ha trasformate in una boccata d’aria con lacrima annessa.
Certo, nella serie non proprio tutto tutto si risolve. Ma il punto qui non è tanto scansare la morte, quando ridare una dignità alle storie delle persone che muoiono. È nella natura umana, lo facciamo da quando esistiamo. Abbiamo raccontato e letto le storie di chi è morto a Chernobyl nel 1986 e chi a New York l’11 settembre. Abbiamo provato a farlo anche con le prime persone morte di COVID-19; ma quando la pandemia si è fatta più seria l’intento ci è sfuggito di mano, e queste persone sono diventate numeri.
Doc in situazioni così gravi ancora non ci si è trovata: di coronavirus si occuperà nella seconda stagione. Il massimo della sopraffazione per i suoi medici è stata finora un’orda di pazienti da suturare, bendare, operare, rianimare dopo un incidente ferroviario. Però la sovrapposizione con la realtà si è avvertita (sia con la pandemia, sia con l’incidente di Pioltello del 2018). E per costruire una sensazione di crescente soffocamento, la telecamera scivolava da un dottore all’altro mostrandone l’ansia di fallire. (Stratagemma pescato probabilmente dai manuali di sceneggiatura, primo episodio di ER.)
Perché Doc – terzo qualcosa – ristabilisce un mondo parallelo rassicurante, dove le situazioni si risolvono con umanità, competenza e anche capacità di porsi molti dubbi. Tutte cose che nutrono l’istinto. Soprattutto quello del dottor Fanti, uno che in un ospedale non dovrebbe circolare se non come paziente, e invece finisce quasi sempre per bagnare il naso a tutti.
In questo senso Doc non somiglia tanto alle varie Dr. House o Grey’s Anatomy. Piuttosto la sua gemellanza è con The Good Doctor: la serie dove Freddie Highmore è un chirurgo autistico. Dalla sua prima messa in onda nel 2017, la critica americana si è chiesta regolarmente come una serie così classica, prevedibile e mielosamente ottimista potesse avere ottimi ascolti. La risposta è che The Good Doctor ha dato agli spettatori uno spazio tranquillo dove rifugiarsi in un periodo – quello della presidenza di Trump – in cui fuori i problemi sembravano insormontabili e la rabbia sociale cresceva.
Doc ha avuto più o meno la stessa funzione, per ora. Ma c’è un punto fondamentale che forse la rende ancora più efficace: la sua storia è in parte vera. Il personaggio del dottor Fanti è ispirato a Pierdante Piccioni, un medico lombardo che dopo un incidente perse 12 anni di memoria. Piccioni raccolse i pezzi della sua vita, li incollò di nuovo e nel frattempo si rimise a studiare medicina (al dottor Fanti questo lungo passaggio è stato risparmiato).
Dal marzo scorso Piccioni gestisce l’emergenza COVID-19 come primario al pronto soccorso di Codogno, il paese del lodigiano dove si registrò il primo focolaio di coronavirus in Italia. Con lui la realtà ha intersecato l’immaginazione. E ha reso Doc un posto ancora più rassicurante.
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