‘Chernobyl’ è bella, ma non la più bella
Nel secondo episodio di Chernobyl, Valery Legasov – lo scienziato che si dannerà fino al suicidio nel contenere i danni del disastro nucleare – si trova a dover spiegare l’entità delle radiazioni a un gruppo di politici sovietici più propenso a insabbiare che a capire. Così, nell’ansia di non giocarsi l’attenzione limitata di Gorbachev (e del telespettatore) impelagandosi in tecnicismi solo a lui comprensibili, opta per la metafora più immediata possibile: quella degli atomi radioattivi come mille miliardi di proiettili dispersi nell’aria, capaci di trafiggere qualsiasi cosa e contaminare tutto, fino a danneggiare il codice genetico umano e causare “malattia, cancro, morte” per cento, forse anche mille anni.
Degli stessi proiettili (o quasi) è fatto il senso di angoscia che questa miniserie coprodotta da HBO e Sky UK sa procurare. Che è tanto, e intenso, e diverso dal solito. Perché non deriva dal non sapere cosa stia per accadere o invece dal saperlo esattamente, bensì dalla precisa via di mezzo. Più la si guarda, insomma, più ci si rende conto che il numero di volte in cui si è sentito parlare di Chernobyl è inversamente proporzionale alle informazioni che se ne hanno a riguardo. Si sa a grandi linee cosa accadde, ovvero. E se ne conoscono gli effetti sul lungo termine. Ma di quelli immediati, appena successivi all’incidente nella notte del 26 aprile 1986, si ha un vuoto più o meno profondo.
Quel vuoto di informazioni, il creatore Craig Mazin e il regista Johan Renck sembrano averlo colmato bene. Con una ricostruzione accuratissima di libri e resoconti, oltre che spennellando i cinque lunghi episodi di un collante emozionale a cui è innaturale restare indifferenti.
Ogni piccola o grande vita raccontata provoca una sensazione diversa. C’è lo strazio del pompiere Vasily Ignatenko (Adam Nagaitis) mentre il suo corpo si scioglie lentamente. C’è lo smarrimento della moglie Lyudmilla (Jessie Buckley) nel non sapere come stargli accanto. Ci sono il sacrificio consapevole di chi lavora per limitare i danni e quello inconsapevole degli abitanti rassicurati sull’inesistenza di pericolo. C’è l’indecisione del vice primo ministro Boris Scherbina (Stellan Skarsgård) nell’assecondare le menzogne governative o le verità del quasi rassegnato Valery Legasov (Jared Harris). E c’è infine la determinazione della bielorussa Ulana Khomyuk (Emily Watson), personaggio inventato – uno dei pochi – per omaggiare gli altri scienziati che collaborarono per fornire spiegazioni e soluzioni oscurate invece dall’Unione Sovietica.
Chernobyl è dunque un incubo tanto squallido e soffocante, doloroso e silente (l’esplosione attesa nel primo episodio si concede al contrario soltanto al quinto), da dover farsi guardare in piccole dosi. E il risultato ottenuto da Mazin e Renck – due dal curriculum non molto impegnato – a molti è parso bello al punto da definirla la serie migliore dell’ultimo decennio (addirittura di sempre, per gli utenti di IMDb).
Il che, però, è abbastanza iperbolico. Poiché anche tralasciando le sbavature storiche e le esagerazioni narrative – lecite, non avendo velleità da documentario – la trama ha qualche debolezza in genere poco perdonata. Una lentezza dovuta a non sempre limpide spiegazioni tecniche, ad esempio, e monologhi molto retorici che le fanno da cornice.
E allora perché tanto coinvolgimento?
Innanzitutto, perché fa presa sui sensi di colpa di chi guarda. Per quanto disastro della storia moderna, Chernobyl non fu infatti trattato come tale. Ma all’esigenza di interrogarsi sulla rarità di foto e video (che abbiamo di Hiroshima, per dire) si è sempre opposto il meccanismo di difesa per cui occhio non vede e mente indora la pillola. La sua bolla finora colma di immagini e racconti ormai consolidati si è rivelata assai più cruda e tragica delle memorie di chi lo ricorda come il periodo in cui era vietato mangiare fragole e insalata. Causando un contraccolpo e una spontanea immedesimazione – anche per merito delle interpretazioni – piuttosto irruenti.
Chernobyl non sarà infatti pura realtà, ma il suo miglior pregio sta nel rendere molto chiaro il senso attuale della storia. Prima ancora che nel nucleare, la pericolosità sta nel costo elevato delle bugie. Cioè, quel ronzare assordante di orgoglio sovranista, oscurantismo da regime, negazione dell’evidenza e attribuzione di colpe straniere che sovrasta anche la verità più fondata. Che sia vizio non sconfitto, lo prova già l’ironia di sapere che in Russia ne sia in lavorazione una versione alternativa che incolperebbe gli americani.
Sempre nel secondo episodio accade anche che Khomyuk, non convinta dalle prime notizie rassicuranti, cerchi di avvertire un autocompiaciuto politico bielorusso della gravità della situazione. “Sono una fisica nucleare. Prima di diventare vice segretario, lei lavorava in una fabbrica di scarpe” rivendica la propria attendibilità. “Vero, ma adesso sono io che comando” la liquida lui dicendole candido di preferire la propria opinione a quella di una categoria brava soltanto a creare falsi allarmismi.
Trentatré anni dopo, siamo ancora bloccati nella stessa surreale realtà invertita.