Serie TV

8 Marzo e nuove (anti)eroine seriali: elogio dell’imperfezione

Avete mai provato a googlare “Donne e serie tv”? In caso di risposta negativa, meglio risparmiarsi la fatica. Tutto quel che uscirà è una sfilza di “Donne che spaccano nelle serie tv”, “Donne a cui ispirarsi per ritrovare grinta”, “Donne incredibili”, “forti”, “toste”. Sensazionalismo che, secondo solo al più roseo “Serie tv al femminile”, si protrae per un’infinità di pagine. Non importa la forma o la lingua con cui si interroghi il motore di ricerca. Il senso che se ne coglie è che, nella recente conquista di ruoli di primo piano, le donne seriali (e del generale racconto audiovisivo) debbano mostrarsi inossidabili per poter accedere all’aura di degno esempio femminista. Lo riassumono bene le ultime lodi di Jimmy Kimmel al successo della Wonder Woman di Gal Gadot (“È quasi un miracolo”), e sembra seguirne la scia anche Netflix, che ha scelto l’8 marzo per l’atteso ritorno della sua serie tv Jessica Jones.

Sembra, infatti.

Perché la supereroina dalla forza sovrumana – protagonista della serie Marvel senz’altro più riuscita – personifica in realtà il vero significato che la Giornata internazionale della donna dovrebbe celebrare: il diritto di sentirsi sé stesse, prima ancora di incarnare un ideale.

Al contrario della collega creata da DC Comics, Jessica Jones è tutt’altro che esemplare. Appartiene a canoni estetici poco convenzionali (grazie ai lineamenti scuri e malinconici di Krysten Ritter), sprofonda in abiti logori e informi, e tradisce tratti borderline. Jessica ha insomma “più problemi che superpoteri”1, tutti racchiusi in un disturbo post-traumatico da stress che la riporta senza pietà a un passato di ferite. Tra queste, anche l’ombra della violenza sessuale, emersa prepotente come sevizia non soltanto fisica, ma altresì di controllo mentale. “Perché chiami stupro stare in hotel di lusso, mangiare nei posti migliori e poter fare tutto quello che ti pare?”, chiede nell’ottavo episodio l’arcinemico Kilgrave, che per mesi l’ha soggiogata. Ed è quasi impossibile non pensare al dibattito sollevato da #Me Too e Time’s Up, curiosamente anticipato dalla creatrice Melissa Rosenberg.

Già, una creatrice. A capo, per giunta, di una squadra produttiva in prevalenza femminile, decisiva nella trasposizione delle debolezze, prima ancora delle prodezze, di un’eroina già atipica. Evoluzione che supera così la figura fragile e secondaria dei personaggi femminili di un passato non lontano, come anche la moderna necessità di proiettarne un’immagine forte, sicura, priva di macchia.

Serie tv 8 marzo Jessica Jones
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Negli ultimi tempi, la serialità si è arricchita di donne dall’autentica ambivalenza, raccontandone il continuo oscillare tra il bisogno d’indipendenza e il conforto della dipendenza.

Merito anche di una schiera di autrici/attrici che, nella mancanza di ruoli da cui sentirsi rappresentate, hanno cucito su di sé storie e personaggi all’origine dell’attuale golden age della comedy. Anzi, dramedy. Il genere fluido che sotto la scorza comica nasconde un reale concentrato di amarezza. Hannah Horvath (Girls), Fleabag, Tracey Gordon (Chewing Gum), Rebecca Bunch (Crazy Ex-Girlfriend), Abbi e Ilana (Broad City) sono solo alcune delle nuove eroine sfacciate, auto-distruttive, dalla vita caotica e complicata (spesso da loro stesse). Scompare dunque la paura di mettere in gioco le disavventure intime, relazionali e professionali, come catarsi ironica del proprio vissuto.

Dalla pioniera Lena Dunham alla sofisticata Phoebe Waller-Bridge, questi volti femminili avvolgono le proprie fragilità in modo istrionico e narcisistico. Il loro modo per testare le reazioni altrui è un’attitudine alla provocazione che di frequente passa per il sesso. Non è difficile trovarle detestabili, più che amabili, ma il punto è proprio questo. Hanno superato il timore del giudizio e del pregiudizio di chi guarda, mostrando, libere, stranezze più comuni di quanto si pensi.

Serie tv 8 marzo-Girls-Lena-Dunham Adam Driver
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Emerge così un ritratto di sana imperfezione umana, in un’epoca che ostenta perfezione. La stessa, ad esempio, di cui Miriam “Midge” Maisel si disfa dopo un divorzio, nel racconto più zuccherato di Amy Sherman-Palladino. Finite le notti a nascondere il volto struccato al marito, Midge prende un taxi, si addentra nei nebbiosi club newyorkesi e trasforma le sue sventure depressive in monologhi dalla comicità travolgente, facendo successo per quel che è. Ovvero, un esile moscerino (come suggerisce il soprannome), una logorroica fatina da cui mai ci si aspetterebbe una simile caustica onestà.

È qui che si annida lo scopo dell’8 marzo per quel che riguarda le serie tv.

Non tanto rimuginare sulle percentuali di professioniste del piccolo schermo, quanto piuttosto vederle libere di mostrarsi in maniera autentica, senza maschere, aspettandosi che gli uomini che le tratteggiano, dal canto loro, facciano lo stesso.

Si dovesse assegnare una medaglia per il femminismo, la si appunterebbe al petto di David E. Kelley. Nell’adattare il romanzo di Liane Moriarty, la sua Big Little Lies ha scelto di umanizzare il ritratto di molti personaggi, elargendo difetti per sopperire alla monodimensionalità (“Non avevo nient’altro che perfezione da interpretare” ha detto Reese Witherspoon della puntigliosa Madeline2). Il vortice di cliché sulla concreta rivalità femminile si placa però con il convergere delle tensioni in un finale di sincera (ma poco narrata) solidarietà.

Perché le donne, come qualsiasi essere umano, sanno armarsi di egoismo e poi porgere aiuto incondizionato, corazzarsi di sarcasmo e poi abbandonarsi alla fragilità. Ma soprattutto si spezzano, eccome, prima di raccogliere (non solo da sé) le risorse necessarie a rifiorire. E allora, perché non raccontarlo?


1
L. Gusatto, “Jessica Jones, l’eroina Marvel di Netflix con più problemi che super poteri”, in TvZap, 12 novembre 2015.

2 D. BirnBaum, “‘Big Little Lies’: Inside Reese Witherspoon’s Twisty Foray Into Television”, in Variety, 31 Gennaio 2017.

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